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Anna Maria Ortese

scrittrice neorealista italiana (1914-1998)

Anna Maria Ortese (1914 – 1998), scrittrice italiana.

Anna Maria Ortese

Citazioni di Anna Maria Ortese

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  • Chi tortura gli animali paga già nella sua miseria. Sono contro la debolezza umana e a favore della forza che le povere bestie ci dimostrano tutti i giorni perdonandoci.[1]
  • [A proposito di Napoli] Ho abitato a lungo in una città veramente eccezionale. Qui [...] tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più cantante e il dolore più lacerato, [...] tutte queste voci erano così saldamente strette, confuse, amalgamate tra loro, che il forestiero che giungeva in questa città ne aveva, a tutta prima, una impressione stranissima, come di un'orchestra i cui strumenti, composti di anime umane, non obbedissero più alla bacchetta intelligente del Maestro, ma si esprimessero ciascuno per proprio conto suscitando effetti di una meravigliosa confusione [...].[2]
  • Isolati sul verde albero splendono | fior di magnolia: delicati pensieri | nella notte umana. Il vento | intorno all'albero corre | e si lamenta | come un povero cane. || Non vedo che una pace | grigia, sopra una tenebra imponente. || Uragano sconvolse | questa povera terra. | Tu, albero, sei il monumento nero | delle nostre memorie, a cui di limpide | lacrime brilla sulla vetta un serto. (Alba[3])
  • La bontà è la | sola libertà | dell'uomo. Tutto ciò | perché la sua vera | catena è la | non-bontà (il culto | dei propri beni) – | Essere buoni è superare | la forza di gravità.[4]
  • La vita – come le ombre televisive – non è mai nelle nostre stanze, ma altrove. Così, chi cercasse il Cucciolo, scruti, la notte, nel silenzio del mondo; non lo chiami, se non sottovoce, ma sempre abbia cura di rinnovare l'acqua della sua ciotola triste. Non visto, verrà.[5]
  • Napoli è un pezzo di deserto azzurro.[6]
  • [A proposito di Erich Priebke] Poso lo sguardo sul carcere dove è chiuso in attesa di un nuovo processo [...]. Non si può non ammirare la dignità con cui accetta, dopo oltre mezzo secolo dal reato di cui è accusato, tutto il rituale solenne della giustizia. [...] Era la guerra. E la guerra non ha nulla di morale. Perché odiare? [...] Lasciate cadere i bastoni. E i lupi feriti di tutto il mondo, rispettateli.[7]
  • Rievocare i paesaggi del passato non si può, diremmo che Dio non vuole; vi è in essi alcunché dell'eden consentito all'uomo una volta sola... egli non può rientrarvi.[8]
  • Scrivere è cercare la calma, e qualche volta trovarla. È tornare a casa. Lo stesso che leggere. Chi scrive e legge realmente, cioè solo per sé, rientra a casa; sta bene. Chi non scrive o non legge mai, o solo su comando – per ragioni pratiche – è sempre fuori casa, anche se ne ha molte. È un povero, e rende la vita più povera.[9]

Il mare non bagna Napoli

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  • Erano molto veri il dolore e il male di Napoli, uscita in pezzi dalla guerra. Ma Napoli era città sterminata, godeva anche d'infinite risorse nella sua grazia naturale, nel suo vivere pieno di radici. (da Il «Mare» come spaesamento, aprile 1994, introduzione a Il mare non bagna Napoli, Adelphi, 199410; Adelphi 1994, pp. 10-11)
  • Come un imbuto viscido il cortile, con la punta verso il cielo e i muri lebbrosi fitti di miserabili balconi; gli archi dei terranei, neri, coi lumi brillanti a cerchio intorno all'Addolorata; il selciato bianco di acqua saponata, le foglie di cavolo, i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo al cortile, quel gruppo di cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione, che la guardavano amorosamente. Cominciarono a torcersi, a confondersi, a ingigantire. Le venivano tutti addosso, gridando, nei due cerchietti stregati degli occhiali. Fu Mariuccia per prima ad accorgersi che la bambina stava male, e a strapparle in fretta gli occhiali, perché Eugenia si era piegata in due e, lamentandosi, vomitava. (da Un paio di occhiali»; in Il mare non bagna Napoli, Adelphi, 2014; Adelphi, 1994, p. 33)
  • [...] l'eterna folla di Napoli, semovente come un serpe folgorato dal sole, ma non ancora ucciso [...] (da La sera scende sulle colline, Il silenzio della ragione, Adelphi, 1994, p. 101)
  • Buona parte di questa natura, di questo genio materno e conservatore, occupa la stessa specie dell'uomo, e la tiene oppressa nel sonno; e giorno e notte veglia il suo sonno, attenta che esso non si affini; straziata dai lamenti che la chiusa coscienza del figlio leva di quando in quando, ma pronta a soffocare il dormiente se esso mostri di muoversi, e accenni sguardi e parole che non siano precisamente quelle di un sonnambulo. Alla immobilità di queste regioni sono state attribuite altre cause, ma ciò non ha rapporti col vero. È la natura che regola la vita e organizza i dolori di queste regioni. Il disastro economico non ha altra causa. Il moltiplicarsi dei re, dei viceré, la muraglia interminabile dei preti, l'infittirsi delle chiese come dei parchi di divertimento, e poi degli squallidi ospedali, delle inerti prigioni, non ha un diverso motivo. È qui, dove si è rifugiata l'antica natura, già madre di estasi, che la ragione dell'uomo, quanto in essa vi è di pericoloso pel regno di lei, deve morire. (da Storia del funzionario Luigi, Il silenzio della ragione, Adelphi, 1994, pp. 117-118)
  • La città si copriva di rumori, a un tratto, per non riflettere più, come un infelice si ubriaca. Ma non era lieto, non era limpido, non era buono quel rumore fatto di chiacchierii, di richiami, di risate, o solo di suoni meccanici; latente e orribile vi si avvertiva il silenzio, l'irrigidirsi della memoria, l'andirivieni impazzito della speranza. (da Chiaia morta e inquieta, Il silenzio della ragione, Adelphi, 1994, p. 134)
  • Era strano, ma questo che vedevo, per tanti aspetti non mi sembrava un popolo. Vedevo della gente camminare adagio, parlare lentamente, salutarsi dieci volte prima di lasciasi, e poi ricominciare a parlare ancora. Qualcosa vi appariva spezzato, o mai stato, un motore segreto, che sostituisce al parlare l'agire, al fantasticare il pensare, al sorridere l'interrogarsi; e, in una parola, dà freno al colore, perché appaia la linea. Non vedevo linea, qui, ma un colore così turbinoso, da farsi a un punto bianco assoluto, o nero. (da Tessera d'operaio n. 200774, Il silenzio della ragione, Adelphi, 1994, p. 139)
  • Di solito, giunti a Napoli, la terra perde per voi buona parte della sua forza di gravità, non avete più peso né direzione. Si cammina senza scopo, si parla senza ragione, si tace senza motivo, ecc. Si viene, si va. Si è qui o lì, non importa dove. È come se tutti avessero perduto la possibilità di una logica, e navigassero nell'astratto profondo, completo, della pura immaginazione. (da Il ragazzo di Monte di Dio, Il silenzio della ragione, pp. 162-163)
  • Come tutte le mostruosità, Napoli non aveva alcun effetto su persone scarsamente umane, e i suoi smisurati incanti non potevano lasciare traccia su un cuore freddo. (da Il ragazzo di Monte di Dio, Il silenzio della ragione, Rizzoli, 1975, p. 155; Adelphi, 1994, p. 170)
  • [...] tornai al mio albergo, e pensando tanti casi e persone passò la notte, e riapparve l'alba del giorno in cui dovevo ripartire. Mi accostai alla finestra di quella casa ch'era alta come una torre, e guardai tutta Napoli: nella immensa luce, delicata come quella di una conchiglia, dalle verdi colline del Vomero e di Capodimonte fino alla punta scura di Posillipo, era un solo sonno, una meraviglia senza coscienza. (da Il ragazzo di Monte di Dio, Il silenzio della ragione, Adelphi, 1994, p. 172)
  • Come da una spiaggia, sul finire della tempesta, si ritirano le nobili onde del mare, che più la percossero, e solo rimangono al suolo, e brillano tra la rena, conchiglie, alghe e rottami, così si allontanarono dalle stanzucce della Nunziatella certi nomi e volti che più avevano brillato, lasciandone a terra altri che non avevano certo il loro splendore. (da Storia del funzionario Luigi, Il silenzio della ragione)

La lente scura

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  • [Sul porto di Genova] Quante mattine ho passato lì. Era la stessa visione dei Tribunali, a Napoli: un formicolare di sole e polvere, di ombre, ori, colori; una eterna folla ed eterna solitudine, con in più qualcosa che a Napoli non c'è: un senso dello spazio (sebbene non molto visibile) e una serietà e dolcezza, una pazzia ben controllata, ch'è propria delle grandi città del passato, e un passato marino. Qui, a questi tavolini, arrivava di tutto; la schiuma del mare aperto diventava uomo, donna, ragazzo; c'era lo straniero dagli occhi quasi bianchi, e c'era il portuale attento, la cui vita è forse finita, e siede coraggioso in un angolo. (Le luci di Genova, p. 114)
  • Ma pur essendo metallico il cielo, e remoto il mare, si sentiva la loro grandezza e libertà, il loro fiato, e i genovesi mi sembravano uscire da quella nobile aria. Ecco cos'è un genovese, pensavo, una persona molto serena e veloce, pulita e ridente. (Le luci di Genova, pp. 114-115)
  • [Genova] mi dava fiducia, e un'emozione sotterranea, come di chi attraversa qualcosa di già conosciuto, e bello, e che però mai si potrà identificare.
    Andare in centro, quando potevo prendere l'auto, era una cosa lieta. Sapevo che in nessun momento mi sarei imbattuta in estranei. Sui mezzi pubblici, nei negozi, passeggiando per il porto, in ogni luogo erano sguardi miti, voci note, parole familiari, come quelle che si sentono in casa. Non vi era nessun timore, in nessun luogo. Non vi si urtava né giudicava: ma sempre la mano pronta a indicarvi la strada, il sorriso schietto, una semplicità amorevole, e l'impossibilità di distinguere tra il signore e il povero diavolo. (Le luci di Genova, p. 118)
  • Allora, io sentivo questa città [Genova] come la città più cara, più mia, fra le tante che avevo conosciuto; e una nobiltà intensa, quella stessa la cui assenza mi faceva morire, circondarmi. Qui è nato Colombo, pensavo, di qui ebbe inizio il grande fantasticare di nuovi cammini nel mondo – vedevo Lisbona, il colloquio con la regina di Spagna, il grande aprirsi, infine, di quel mondo! – E mi pareva che tanto tempo non fosse passato, e fossimo ancora nel secolo quindicesimo, e ancora qualcuno si apprestasse a partire, da questa terra, in una notte senza luce, per gettarsi verso l'oceano, verso un avvenire improbabile, ma non meno amato. (Le luci di Genova, p. 119)
  • [...] e alla fine in un solo urlo d'amore, d'ammirazione, di spavento quasi, ecco Coppi.
    Veniva avanti in un modo incredibile, anche per un profano: senza sforzo, con una leggerezza e una violenza che non gli costavano nulla, quasi precipitasse e il suo unico impegno consistesse nel dominare qualche potenza. Le sue ruote, non comprendiamo come, ci sembravano più alte e lievi delle altre, ruote fatate su cui il contadino di ieri era stato rapito. Mentre il corpo rimaneva immobile, e quasi rilassato, il volto patito e duro che tutti conosciamo si muoveva in qua e in là, con una pena particolare, sorridendo senza sorridere. A somiglianza del volto di tutti i corridori, era infiammato e cupo, gli occhi splendevano come di lacrime, un sudore copioso, o acqua che si era versata sul capo, gli grondava dal collo e dalla fronte. Come il becco di un rapace sfinito, il suo naso pungeva l'aria, il bianco della polvere. Era forse sfinito, ma volava. (Giro d'Italia, p. 168)
  • Una città, grande o piccola che sia, è sempre e nient'altro tutti gli uomini che l'abitano e la dirigono. È strumento, e direzione dello strumento. La sua importanza segreta non le viene dall'essere ricca, per esempio, o intelligente: ma dai fini che, misteriosamente, si propongono questa ricchezza e questa intelligenza. È come un bastimento, il cui valore è riconosciuto dalla bandiera che batte, ma soprattutto dal numero dei porti che raggiunge, dai Paesi che serve, che unisce. Potenza e finalità della potenza, ecco una grande nave, ecco una grande città. Senza finalità non esiste vera potenza. Una nave deve raggiungere dei porti, una città deve raggiungere l'uomo. (Viaggio in Liguria, p. 328)
  • Lei si deve mettere in testa che per noi, genovesi, la società muore in casa. Il mare, è solo la strada di casa. Abbiamo le case più alte di tutta Italia, le più forti, e con le finestre più strette, perché non vogliamo occhiate. Guardiamo e non vogliamo essere guardati. Del resto, quello che guardiamo, si rassicuri, non è l'Italia né il mondo, ma il traffico del porto. Qualche volta, guardiamo anche l'orizzonte, benché laggiù non succeda più niente. (Viaggio in Liguria, p. 329)
  • In una città, come nel mare, bisogna identificarsi, per vedere realmente. Bisogna che qualcuno si dimentichi per quale motivo siete venuto, e vi confonda con un familiare. Allora, mille particolari segreti vengono alla superficie, e in quei particolari si ricompone anche per voi il volto sfaccettato della città, si ricompone in un'immagine unica. (Viaggio in Liguria, p. 330)
  • Non so se fosse per la luce del cielo, che sembrava raddoppiata, quasi sull'orizzonte nascosto dai palazzi fossero, sul finire del giorno, apparsi degli altri soli, ma la via Gramsci, e poi certe strade del centro, e poi la via XX Settembre mi sembravano pervase da un'amministrazione straordinaria, cui, per contrasto, la regolarità delle prospettive, lo splendore dei giardini, il colorato brillio delle luci che cominciavano ad accendersi nei negozi, nei caffè, sulle terrazze più alte, conferiva l'incantata fissità di un'antica stampa. (Viaggio in Liguria, p. 330)
  • Sotto questo cielo, entro questa luce d'una vastità, un fulgore, una bellezza assolutamente irreale, ugualmente vasta, fulgida, irreale, si apriva Genova. Salive e scendeva dai monti circostanti, in un'altalena di bianchi palazzi, diecimila occhi freddi appuntati sul mare. Saliva e scendeva: e con essa la gente, le macchine, il mare. (Viaggio in Liguria, p. 331)
  • Poco dopo, camminavo adagio sotto gli archi di Sottoripa, indescrivibile pietra nera formicolante di vita minima, di commerci meravigliosi e inqualificabili, pregna di odori i più diversi, che vanno dalle fritture di pesce, al caffè tostato, dal cuoio, alle spezie, dalle divise di marina alle penne di piccoli uccelli esotici. All'impressione del buio, si era sostituita quella di una semioscurità radiosa: il buio degli archi, delle tende, degli usci segreti era intramezzato adesso da raggi di luce variamente colorata, o semplicemente dolrata dal sole al tramonto, ch'era l'effetto di questo o quel riflesso. Mille negozietti, mille bancarelle, mille tavolini di povero ferro scuro, protetti da tende, da foglie, da cascate di merce di nessun valore, la stessa delle fiere dei villaggi. (Viaggio in Liguria, p. 333)
  • Bello, bellissimo, incantevole... Queste parole, purtroppo, non possono dirci nulla sulla Riviera Ligure, perfetta, direi impossibile quanto un'opera d'arte, concepita e realizzata da un autentico ingegno. Non c'è nulla d'indefinito, di sbagliato, di approssimativo, qui, come accade in generale nelle opere della natura: la concezione è quanto di più alto, nella grazia e nella gioia, si possa pensare; la realizzazione è quanto di più studiato, più abile, più tecnicamente sottile si possa dare nelle opere della mente. (Viaggio in Liguria, pp. 336-337)
  • [Sulla Riviera Ligure] Non voglio dilungarmi in parole su quegli azzurri, quei verdi e quei bianchi e su tutta la forza e la soavità, le tonalità e le liquide trasparenze di cui si valgono per rappresentarci giardini, onde, fiori, teneri declivi, e paesi e villaggi come cespi di gerani e di rose (in riva a un'acqua sempre fresca, sempre azzurrina); voglio dire soltanto che tutta questa bellezza, toccando la perfezione delle cose pensate, mi sembra inabitabile. (Viaggio in Liguria, p. 337)
  • Il treno si muove, l'albero rosa se ne va, e così se ne va la piazzetta con le sue aiuole, le panchine, la poca gente. Una striscia di bucato, casette e terrazze bianche che scendono al mare. Il mare come un mare celeste. Questa è Liguria. (Viaggio in Liguria, p. 346)

Le piccole persone

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Quando sono nata l'universo era ancora visibile. In questo senso, la mia generazione, quella della prima guerra mondiale, fu davvero privilegiata rispetto a quelle che seguirono. Oggi si sa di più sull'universo, ma esso è nascosto dal proliferare delle opere e le azioni umane. Per universo, intendo gli innumeri cortei di stelle, i pianeti, il nostro pianeta, e tutta la incomparabile energia che organizza le proprie forme, le completa, e poi le disperde, così si direbbe, in un solo soffio. Intendo le montagne, i mari, le terre fiorite, gli alberi, gli animali, e in qualche modo anche l'uomo. Tutto ciò, insomma, che si apre a ventaglio, continuamente, nel nulla, inventa ad ogni attimo forme straordinarie, squisite, e poi le cancella o riassorbe.

Citazioni

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  • Ci sono momenti in cui un albero ci si mostra improvvisamente umano, stanco. Altri momenti che un'umile bestia (o ciò che crediamo tale) ci guarda in modo tanto quieto, benevolo, profondo, tanto puro, consapevole, amoroso, «divino», da farci balenare l'idea di una comune Casa, un comune Padre, un comune Paese, un Reale tanto felice e beato, dal quale partimmo insieme, per naufragare in questo. (p. 16)
  • Non si dice degli animali: queste anime viventi – tale è il loro nome nei testi sacri – occupano il grado più basso, ormai, di tutta la vita vivente, e dove in tempi precedenti la loro sfortuna, asservimento, dolore era cosa casuale ora è cosa altamente programmata, tramite l'industria, e li vediamo in ogni punto della loro muta vita soggetti alla infame programmazione del vivere – una minima parte – umano, alla programmazione del potente umano. Allevamenti, macelli, laboratori, giochi infami, sacrifici solo apparentemente religiosi – in realtà sadici –, maltrattamenti, divertimenti e alla fine ritiro totale, da essi, di ogni pur apparente protezione della legge: ridotti a cose, essi anime viventi, e il loro vivere pari in tutto all'inferno che l'uomo temeva ed ora ha pienamente realizzato. Lo ha realizzato per i più deboli. (p. 34)
  • L'uomo è, generalmente, inumano, egli è l'amorale per eccellenza, e i suoi bisogni – che afferma essere sacri – sacri non riconosce ai più deboli di lui. Così l'uomo è l'oggetto più sordo e cieco dell'Universo, e si spiega a questo punto la sua necessità di considerare il luogo dove vive, la Terra, un oggetto meccanico, a lui pienamente soggetto, di cui egli conosce tutti i segreti e dispone di tutti i comandi. Ed egli s'illude quindi di controllare terremoti, maree, inondazioni, epidemie, disastri celesti, e ogni altro orrore: e forse pensa – anzi pensa senza dubbio – almeno io, il più forte tra gli uomini, Ford o qualsiasi altro, mi salverò, a causa dei miei soldi. Tutti gli altri si perderanno, ma io che posseggo potere sugli altri, mi salverò. Così piccolo e miope è il più grande e il più forte dei terrestri. (pp. 34-35)
  • Oh i buoni cani! Esprimeva un tal sentimento quell'occhio grande, umile e fiero a un tempo; scintillante, in presenza del padrone, di pazza allegria, ma stranamente triste nei solitari riposi, seminascosto tra l'orecchio e la zampa. (p. 77)
  • Caro Ciolì, caro Tull, voi tutti, nobili animali che racchiudeste nello sguardo tanta bontà e dolore, a volte tanta schietta allegria di bimbi ed altre tanta cupa malinconia di schiavi: ho l'impressione che non proprio la terra nera vi ospiti, la terra dei luoghi sconsolati ove vi posero, indugiando, le nostre mani; ma non so quale strada aperta verso l'orizzonte accompagni il vostro cammino, che mai non avrà termine: come non ne ha quello del dolore senza peccato, della passione senza parole, della generosità senza speranza. (p. 79)
  • Volli spiegarmi il perché i delitti contro gli animali mi sembrassero così orribili, quasi superiori a quelli consumati dall'uomo contro l'uomo, e capii che il loro orrore era nella perversità. Di solito, si uccide un uomo per un motivo. Ma il torturare e poi uccidere un animale innocuo, da parte di ragazzi come di uomini, era invece piacere puro, divertimento gratuito, ottenuto a spese di creature più deboli, era, infine, il desiderio di conoscere il dolore attraverso gli spasimi di un altro, era sadismo. (p. 83)
  • L'uomo vive avulso dalla Natura, in questa grande casa passa come un servo o un padrone, quasi mai come un figlio o un fratello. E, invece, tutto ciò che tocchiamo è meravigliosamente vivo e permeato della sensibilità e dolcezza dello Spirito che ha generato l'Uomo: un cavallo, un uccello, una farfalla, e persino la vipera e l'orrido rospo, non sono, in diversa maniera, meno rispettabili dell'uomo. Essi palpitano. Chi è che palpita in essi, se non lo stesso Dio che ci rende coscienti? Alcuni non vogliono chiamarlo Dio. Lo chiamino come vogliono: è evidente che tutto ciò che vive è espresso da quest'Uno, che nei momenti più alti della vita si chiama Intelligenza, ma più spesso non è che sensibilità, e non bisogna offenderlo e tormentarlo, ma dedicargli rispetto e tenerezza infinita. (pp. 83-84)
  • Quando ci capita di avvicinare una carovana del Circo, questa specie di città, di paese sempre straniero in qualsiasi paese, la paura e lo stupore dell'infanzia rinascono dentro di noi. [...] È la paura e lo stupore, e insieme un leggero senso di pena, che abbiamo riprovato lunedì scorso nella piazza di Porta Volta, davanti la cupola verde del Circo Massimo Togni. Quelle bandiere sventolanti nel cielo uniforme di Milano, quei volti impastati di bianco e di rosso dei clown, quei lontani barriti di elefanti, rendevano più vivo il contrasto col traffico delle macchine e il passaggio della folla lungo le strade, confondendoci le idee sulla validità dei due mondi così brutalmente posti l'uno di fronte all'altro. [...] Solo riaffiorerà più acuta la pena per le bestie ammaestrate: i cavalli, fatti per il libero vento, che vanno a passo di danza anziché a sfrenato galoppo di prateria; gli elefanti, nati per vivere nella pace delle grandi foreste, ridotti a seguire il cenno della bacchetta e il colpo di pungolo; i leoni, imprigionati tra quattro sbarre di ferro, seduti sugli sgabelli come inquieti scolari. (pp. 97-98)
  • Il domatore entra nella gabbia preceduto da schiocchi secchi di frusta: i leoni s'impennano come sotto un colpo improvviso di vento. Fiutano il nemico, l'uomo che li ha portati e li tiene lontano da quella terra di ricordo. [...] Ma il domatore è diventato il loro re; vuole che i leoni si mettano in fila, si seggano sugli sgabelli, saltino l'uno sull'altro: li vuole umiliare. [...] Il domatore ha vinto anche stasera. Il fascino, la paura, l'ammirazione, ci fanno battere le mani: lo sguardo malinconico dei leoni ci fa soffrire. (pp. 99-100)
  • Si può giudicare della civiltà di un paese, come di una persona, dal fatto che nei suoi comportamenti abituali l'ammirazione il riguardo e la compassione per la vita abbiano o no il primo posto. (p. 101)
  • Durante la guerra, a Venezia, in una piazzetta, vidi e raccolsi un gattino in tali condizioni! Era un solo pianto, una sola ferita – gli occhi erano feriti o non c'erano più – e mai avrei creduto che un così piccolo figlio della terra potesse piangere in quel modo tutta una notte, chiamando qualcosa che non c'era, la madre a cui era stato tolto, l'integrità del suo corpicino, tutto ciò che il cielo gli aveva dato e per lui, ora – a causa di qualche libero gioco di esseri superiori –, non c'era più. Ricordo che passai una notte in ginocchio vicino a lui, chiedendogli perdono per la mia razza. E al mattino ero al Lido, per una sepoltura di riguardo, e senza macchia. (p. 104)
  • Avanti quei paesi che non radunano animali per massacrarli e venderli a pezzi, [...] che non sgozzano e insultano il maiale (e non lo ingrassano prima) per le feste del Dio in cui nessuno più crede. Avanti quei paesi [...] che non adoperano il cane per esperimenti <che> nessun criminale di razza umana sopporterebbe (né sarebbero pensabili, appunto, per nessun essere umano). (p. 105)
  • Avanti i paesi che non domano i cavalli, non straziano la volpe, non ingiuriano la iena – civili iene essi stessi! (p. 106)
  • Un giorno, in un racconto di Natalia Ginzburg [...] trovai la parola «faccia», o «viso», applicata al musetto di un gatto. Per me fu una scoperta, e mi sembrò il «segno» di una rivoluzione che in molti aspettiamo da tempo, rivoluzione stranissima, ma l'unica veramente in grado di consentire un salto di qualità alla storia umana, di promuovere l'uomo al grado di essere superiore, che egli asserisce continuamente di aver raggiunto. L'uomo, infatti, riconoscendo che anche gli animali hanno una faccia (due occhi, spesso supremamente belli e buoni, naso, bocca e fronte), ammette implicitamente che gli animali sono suoi fratelli, o anche semplici «antenati», conviventi oggi con la sua storia, sono meravigliosi oppure comuni «diversi», e quanto lui partecipano del mistero e il dolore e il cammino della vita. (p. 113)
  • È che il mio carattere è cattivo, non è buono, non è tenero, e subito, quando incontro presunzione e vigliaccheria che entrano come padroni nel territorio dell'innocenza e della debolezza, vorrei prendere le armi, vorrei prendere una scimitarra, e far cadere delle teste infette. Ma mi trasformerei in uno di loro, e dunque, via il desiderio. (p. 116)
  • Ho respinto scrittori che veneravo, per una sola scena d'iniquità, e adorato gente considerata infima, per una sola parola d'amore verso una Piccola Persona. Persone di un mondo a me lontanissimo, come l'attrice francese Brigitte Bardot, sono diventate capi invisibili e venerati di una nuova Chiesa planetaria, quando le ho sentite parlare di questo Popolo. E ora ritengo Brigitte Bardot – per la sua conversazione di un giorno, in televisione, per gli orrori che ha medicato e la sua indicibile pietà per Piccole Persone lontane – regina di Francia, e non riconosco alla Francia nessuna donna più eminente. (p. 117)
  • Così anche la nostra brutta salute (siamo imbottiti di medicine costosissime) sempre più decade, per un oscuro delitto – dirò proprio infamia – che è nel nostro consenso alla pratica medica, sperimentazione e vivisezione. (pp. 118-119)
  • Perciò – sto per finire – onore a tutti quegli uomini, peccatori o meno, a tutti quei ragazzi, bravi o meno a scuola, che hanno capito qual è il primo dovere, oggi, dell'uomo: di non toccare più, se non come fratelli, per una carezza o un aiuto, le Piccole Meravigliose Persone. Di non mangiarle più. Di non asservirle. Di non perseguitarle. Di non isolarle, dal contesto della nostra vita, della vita di tutti, di non spregiarle, insultarle, straziarle. Perché comincia da qui il Non-Uomo, l'atroce Inumano che da gran tempo ci tormenta. (pp. 119-120)
  • La parola bestia, poi, non ha senso nella Creazione, dove il soffio è tutto, in tutte le forme che variano – e ugualmente apre alla visione e all'esperienza oscura tutti gli occhi: quelli di Shakespeare e quelli del cane da laboratorio, che fissano una finestra chiamando Dio, a loro modo. (p. 120)
  • [Gli animali] Sono anime viventi [...]. Le loro voci, i loro lamenti all'alba, o nei soffocanti carri ferroviari fermi sui binari l'estate; le loro fughe, spesso, e il loro tremito negli immondi macelli (immondi davanti a Dio e a tutti gli uomini veramente civili) ce lo confermano. (p. 123)
  • E l'uomo senza compassione è nulla, è un fenomeno fisico che potrebbe cessare di essere, e non cesserebbe nulla. Nulla ha valore, in tutta la vita dell'uomo sulla terra, nemmeno l'immensa arte e le religioni – nulla, se non questo sentire compassione e desiderio di soccorrere un altro – chiunque altro, chiunque sia vivo o dolente. (p. 123)
  • Si avvicina la Pasqua, e ora saranno agnelli e capretti a entrare, con la loro gentilezza di bambini, nei macelli. E avranno paura e dolore, e alla loro paura e al loro dolore nessuno farà caso. (p. 124)
  • Ciò che si va facendo da parte della scienza (nostro vanto) o dei semplici allevatori o cacciatori di animali, contro gli animali, è veramente innominabile. Stupirò i miei lettori, e forse li scandalizzerò, affermando che, a mio parere, il nazismo non è affatto un momento storico, ma una dimensione immortale dell'uomo, e lo prova il fatto che, mancando le occasioni di esercitare il proprio potere su uomini inermi, lo si esercita a freddo sui figli inermi della natura. Ciò che un cane può e deve sopportare nei laboratori di tutto il mondo è cosa che riempie di terrore: non tanto pensando al cane, ma a chi esercita il suo potere assoluto su di lui. (pp. 132-133)
  • Non so se posso dirmi cristiana, ma temo di credere in Cristo, e nella sua rivelazione, come nella presa di coscienza della storia stessa. Senza Cristo, e quindi definizione del mondo come anti-mondo, anti-realtà, anti-vita, non vi è storia, ma inganno di ciechi fatti. Un'ipotesi, Cristo, c'illumina sulla realtà del mondo: una caduta. Da dove, è insensato chiedere. Alcuni poeti lo hanno tentato. I poeti, anche quelli di provincia, sono in genere uomini buoni: ascoltano il canto degli uccelli, intravedono nel mattino più azzurro un ricordo di patria, velato di lutto. Vi è lutto, nella Creazione. Qualcuno, non sappiamo dove, fece una scelta: ne nacque il continuo morire, la continua disperazione. (pp. 134-135)
  • Comincerà fra giorni, nel verde, nella luce, quella [strage] di milioni di piccoli agnelli. Strappati ai loro giochi, penderanno aperti e muti ai ganci delle macellerie. E perché? E come? In nome di quale risveglio dello spirito? E si prepara, in una patria vicina, famosa per la sua obbedienza alla legge, il tormento del toro. Coinciderà con la stagione degli amori, della gioia, della luce. E perché? In nome di chi? Non è, anche il toro, una luce? Non è fertilità, creazione? (p. 136)
  • Io non arrivo a dire che si possa convivere con l'orango. So tuttavia, con certezza, una cosa: che l'orango non arriva a bruciare i boschi, a ridurre l'uomo e l'altro in allevamenti, a pensare per lui – alla fine – mezzi che lo distruggano totalmente, in un attimo (o tra sofferenze senza scampo) solo lasciando intatti i suoi averi. No, l'orango – che non scrive libri e non li legge – non arriva a questo. (p. 140)
  • Il toro, in Spagna e in altri paesi caldi e cattolici, muore credo ogni giorno d'estate, straziato dalle banderillas di fuoco e alla fine soffocato dal proprio sangue. (p. 146)
  • E gli animali sono veramente gli «ultimi», vengono perfino dopo i poveri, che almeno, qualche volta, possono reagire. (p. 153)
  • La sperimentazione che riduce una bestia simile a Cristo sulla croce, però senza il grido finale. (p. 156)
  • Vivisezione [...] è un'esperienza scientifica (e può anche non essere scientifica, ma di semplice curiosità) fatta sezionando animali vivi, con l'aiuto o no di anestetici. [...] Questa esperienza, per qualche medico dell'antichità, era consentita su soggetti umani, su condannati a morte, per esempio: si interveniva su di essi tranquillamente e senza preoccuparsi, dati i tempi – e anche l'infanzia della medicina –, di ciò che essi potevano o no sopportare. Scomparsa, credo, dalla pratica medica, rispetto al soggetto uomo, la vivisezione è ricomparsa – o forse è stata sempre, e con pieni poteri – rispetto al soggetto animale. [...] Ogni giorno [...] per gli animali sottoposti al controllo e dominio scientifico, è un giorno di paura o di strazio, spesso spaventoso strazio, che bisogna sopportare senza grido, anche il grido dà fastidio, il grido attraverso cui il dolore esce a fiotti. (pp. 160-161)
  • Gli orrori della vivisezione sono tali, che solo il silenzio intorno ad essi può renderli possibili: oppure questa convenzione: che gli animali soffrono meno dell'uomo, o non soffrono affatto. Ma i medici scrupolosi, quando interrogati, abbassano la testa: altri non rispondono, o si limitano a dire che «è necessario». (p. 161)
  • Regola morale inconscia è avere una stagione per gli amori, una per la maternità – mai rifiutata – e quindi il senso solenne della maternità, come si trova in tutti gli animali. Regola morale è il rispetto del cucciolo. (p. 163)
  • Nel mondo animale – fanno eccezione alcuni insetti, ma solo alcuni insetti – solo l'uomo, inoltre, pratica l'allevamento – in segregazione – di altre specie, e conosce l'uso indiscriminato di queste specie, ed applica su di esse, secondo quanto gli è utile, ora la morte, ora la tortura. (p. 163)
  • Essa [la vivisezione], qualunque sia il luogo o la causa per cui viene praticata, viola la legge morale in modo assoluto. Essa parte infatti dal principio che solo la specie umana ha diritto alla integrità e la vita, perché superiore: tutte le altre non hanno alcun diritto né all'integrità né alla vita né alla fuga dal dolore. (pp. 176-177)
  • Anche la sperimentazione farmaceutica è un inferno solitario, diretta da aguzzini che non sanno di essere tali. Ho visto agonizzare tutta una notte, e morire, una di queste creature meravigliose, avvelenata da una «cura». Ricordo che durante quella notte, a un tratto, sentii piangere un bambino. Nella stanza non c'era nessuno. Era questa bestia innocente che aveva gridato con voce da bambino. Perché era un bambino – era un cucciolo – e come un bambino pativa e invocava un aiuto che non poteva esserci più. (p. 179)
  • Insegnerei poi nelle scuole cos'è veramente (nei suoi lati immondi) il celeste impero umano, e com'è notturna ma sacra, dolorosa ma spesso così dolce, l'oscura e umile nazione degli animali. (p. 187)
  • Il cervo [...] divenne per me una immagine misteriosa della natura stessa, ardita e vitale, innocente e già salva nel pensiero di Dio [...]. (p. 196)
  • [...] colmo dei colmi – dopo l'atrocità degli allevamenti – raggiunto dall'uomo: la vivisezione. [...] Guardate queste fotografie, lettrici e lettori, e dite se prima di tutte le vostre sofferenze non venga questa sofferenza. [...] Prima questo! Prima salvare questo! Prima ridare il respiro ai figli della natura – i nostri fratelli maggiori –, toglierli dalla croce su cui l'uomo li ha innalzati. Solo dopo verranno i nostri interessi. Perché – se noi lasciamo sulla croce queste creature – significa che siamo morti, anzi, già puzziamo. [...] Si dice «carogna» del corpo morto dell'animale. E come si chiamerà l'Anima dell'uomo giunta a salvare il proprio corpo attraverso tante infamie? (pp. 202-203)
  • Ma il dolore degli animali è ormai il primo dei miei pensieri, e giudico perfino il «genio» da quel rapporto: se c'è o non c'è, con l'indignazione. Non è che non abbia altri due o tre pensieri-base (compagni di ogni ora – compagni di tutti), ma mi sembra che all'inizio di ogni affanno o terrore bisognerebbe ricercare il peccato, ch'è l'assenza di innocenza, ma soprattutto di pietà per i più deboli. (p. 210)

Citazioni su Anna Maria Ortese

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  • Nella polemica fra natura e cultura la Ortese ci dà in regalo questo essere mostruoso, mezzo umano e mezzo animale, che sa soffrire e piangere come in un'infanzia smarrita la certezza di un bene inarrivabile anche se qualcuno pensasse di attribuirsi il Male. (Dario Bellezza)
  • Per me, che appartenevo a una famiglia colta, ma decaduta economicamente, e che per varie vicissitudini ero outsider, tanto a scuola che nella borghesia napoletana, il fantasma amato era Anna Maria Ortese, che pochi anni prima aveva frequentato quel Viale. Per la mia amica, che apparteneva a una famiglia più incolta, ma in rapida ascesa sociale, il fantasma era G. L., donna bellissima, elegante e libera. Attorno a ambedue i fantasmi femminili aleggiava il peccato: quello di comunismo attorno a Anna Maria Ortese, quello di sesso attorno a G. L. (Fabrizia Ramondino)
  1. Citato su Panorama, 7 luglio 2002.
  2. Da L'Infanta sepolta, p. 117.
  3. In Poesia, anno VIII, Luglio/Agosto 1995, n. 86, Crocetti Editore, Milano, p. 6.
  4. Libertà; citato nella postfazione di Angela Borghesi a Le piccole persone, p. 265.
  5. Da Alonso e i visionari, p. 246.
  6. Da Alla luce del Sud: Lettere a Pasquale Prunas, Archinto, Milano, 2006, p. 132.
  7. Citato su Il Giornale, 12 gennaio 1997; citato in Giulia Borgese, Cara Ortese, Priebke non è un povero lupo ferito, Corriere della Sera, 13 gennaio 1997, p. 27.
  8. Da Il cardillo addolorato.
  9. Da un'intervista del 1977, ora in Corpo Celeste, Adelphi, 1997.

Bibliografia

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