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Mario Pancini

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Mario Pancini nel 1968

Mario Pancini (Rovigo, 5 agosto 1912[1]Venezia, 24 novembre 1968) è stato un ingegnere italiano.

Nato a Rovigo[2], era il primo figlio di Giulio Pancini e di Maria Galeazzi. Il padre, che discendeva da una vecchia famiglia friulana di Varmo, in provincia di Udine, fu ingegnere del comune di Venezia e, nel corso della sua carriera, divenne ispettore per la provincia di Venezia della Magistratura delle acque. Il fratello Ettore diventò fisico sperimentale, e aveva anche una sorella, Irene.[3][4]

Pancini nella cabina comandi della diga del Vajont nel 1960

Dopo la laurea in ingegneria civile alla Regia Università degli Studi di Padova[5] con la tesi Calcolo di una diga ad archi multipli[6], venne assunto dalla SADE come fidato capocantiere ed era il numero uno del settore, ben noto e apprezzato a Venezia.[7] Insieme all'ingegnere Carlo Semenza, progettò le dighe di Sauris, Pieve di Cadore, Val Gallina, Valle di Cadore, Fedaia e Mis. Amava la buona musica, conosceva bene le più importanti lingue straniere e riteneva il tedesco essenziale per un tecnico.[8]

Nel gennaio 1951, insieme ad Alberico Biadene, mandò una comunicazione al quarto congresso delle grandi dighe di Nuova Delhi, in cui presentava i risultati di dieci anni di sperimentazione in laboratorio, sui vantaggi e gli svantaggi dei cementi per calcestruzzo di massa con le pozzolane, e la sua applicazione alle dighe del Lumiei e di Pieve di Cadore.[9]

Fu il direttore dell'ufficio lavori al cantiere del Vajont[1] durante la costruzione della diga, e con Semenza l'ideatore della galleria di sorpasso frana. Durante gli anni di costruzione della diga, era domiciliato a Longarone.[10] Non era né acquiescente, né indeciso nell'affrontare i compiti previsti per il suo ruolo.[11] Nelle riunioni sul Vajont dei giorni 8, 9, 15 e 16 novembre 1960, fungeva da traduttore per il geotecnico austriaco Leopold Müller.[12]

Il 23 novembre 1960, diciannove giorni dopo la caduta della prima frana, redasse un promemoria sui provvedimenti da adottare, che sottopose all'attenzione di Semenza. Aveva scritto di accelerare artificialmente la scivolata della montagna attraverso invasi e svasi del serbatoio.[13] Il suo progetto però non venne mai effettuato, nemmeno dopo la morte di Semenza, avvenuta il 30 ottobre 1961.[14]

Come ingegnere residente al cantiere, non essendo l'impianto ancora collaudato, si occupava dei controlli della diga, dei movimenti della frana, dell'organizzazione dei lavori da effettuare e dirigeva il personale (periti edili e geometri) del servizio costruzioni idrauliche presenti.

Il disastro del Vajont

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«Sono morto anch'io in quel momento. Vi giuro che in quel momento sono morto anch'io.»

Al tempo del disastro, abitava in un piccolo appartamento a San Marcuola, dove conduceva una vita da misantropo.[16] Il 26 settembre 1963, il nuovo ingegnere capo Biadene trasmise al suo più stretto collaboratore l'ordine di togliere l'acqua. Il 30 settembre, dopo essere stato a un congresso di geomeccanica a Salisburgo, Biadene gli telefonò a Roma perché informasse personalmente la sede centrale della Enel-Sade della situazione e del provvedimento preso di iniziare lo svaso. Espresse la preoccupazione per una eventuale frana in fianco sinistro del bacino e, preannunziando una sua visita per il successivo 2 ottobre, pregò l'ingegnere Giacomo Baroncini, direttore centrale delle costruzioni idrauliche Enel, di convincere il consulente geologico governativo, Francesco Penta, di fare un nuovo urgente sopralluogo.[17]

Il giorno dopo, partì in aereo per trascorrere le sospirate ferie a Buffalo-Niagara, negli Stati Uniti: un periodo di sollievo, lontano dal Vajont e dai suoi angosciosi problemi. Ufficialmente, al cantiere lo sostituì l'anziano ingegnere Beniamino Caruso, il direttore responsabile degli impianti dell'Enel-Sade di Agordo per il medio Piave, con l'incarico di tenere sotto controllo la situazione nel caso succedesse qualcosa di anormale. Quest'ultimo, tuttavia, non aveva ricevuto istruzioni da lui.[18]

Non si sentiva, però, tranquillo, se telefonava per avere notizie, che gli si inviavano anche in America.[19] Il 3 ottobre, ricevette a Washington una lettera scritta da Biadene, nella quale gli diceva che il lago stava calando e le velocità andavano diminuendo nonostante piovesse.[20] Il mattino dell'8 ottobre, Caruso si recò al Vajont con Biadene e, a seguito del sopralluogo, venne deciso di chiedere il rientro immediato di Pancini dalle ferie, anziché andare a Wiesbaden. Così, la mattina del 9 ottobre, Biadene preoccupato scrisse una lettera al suo vice nell'Hotel Governor Clinton, a New York.[21]

Seppe del disastro del Vajont il 10 ottobre, poche ore dopo, attraverso un cablogramma di Biadene nell'Hotel Niagara.[22] Lo lesse poi su un giornale distribuito in aereo mentre sorvolavano gli Stati Uniti. La frana se l'aspettava e ne parlava giornalmente per telefono con il cantiere della diga, però mai aveva temuto una tragedia di quelle dimensioni. Aveva sempre ritenuto il punto debole dell'impianto l'appoggio della diga sulla spalla destra. Per questo aveva fatto eseguire cuciture in acciaio che rendevano solidali gli strati di roccia sui quali si scaricavano le spinte dell'opera. Senza quell'accorgimento, l'imposta non avrebbe resistito alla pressione esercitata dalla lama d'acqua che aveva scavalcato lo sfioratore. Se fosse crollata la diga sarebbero scomparsi, fra gli altri, anche gli abitati di Soverzene, Cadola, Ponte nelle Alpi, e nemmeno la città di Belluno si sarebbe salvata.[23]

«Colpa o non colpa, ci sono duemila morti.»

Durante la fase istruttoria per i fatti del Vajont, era fuggito in Svizzera per il timore di essere arrestato.[16] Aveva sempre sostenuto, oltre l'imprevedibilità del disastro nelle misure in cui avvenne, anche la propria subordinazione a Biadene. Non sopportava l'idea di essere rinviato a giudizio, con l'accusa di aver partecipato alla corsa al collaudo della diga, e raccontava che nessuno della direzione generale Enel-Sade, aveva messo fretta ai tecnici che seguivano l'impianto.[24] Al giudice istruttore bellunese, Mario Fabbri, aveva annunciato la minaccia del suicidio in caso di rinvio a giudizio per omicidio colposo plurimo, che era comunque un atto dovuto.[25][26] Dopo il suo diretto superiore Biadene, sicuramente era l'imputato più importante.[27]

La domenica mattina del 24 novembre 1968, il giorno prima di quello nel quale doveva iniziare a L'Aquila il processo di primo grado, alla stazione ferroviaria di Santa Lucia i suoi avvocati Gaetano Artale e Carlo Ottolenghi lo stavano aspettando per salire sul treno diretto al capoluogo abruzzese. Dopo cinque anni d'angosciosi interrogativi e probabilmente schiacciato dal rimorso dei duemila morti, con molti dei quali aveva avuto anche consuetudine di vita, si suicidò nel suo appartamento a Venezia, dopo essere rientrato in città, con il gas della cucina, che aveva isolato con nastro adesivo per evitare scoppi devastanti, abbandonando sola la madre di 80 anni, cieca e senza risorse, le sorelle, i cognati e i nipoti.[15][16][28][29][30]

Fu sepolto a Venezia.[31] Il giudice istruttore informò l'anziana madre con una lettera scritta di suo pugno e si occupò privatamente delle sorti della donna, che morì cinque mesi dopo, il 16 aprile 1969.[25][32][33]

L'epitaffio alla diga

I suoi collaboratori sopravvissuti al disastro l'avevano conosciuto durante tutto il corso dei lavori, erano al corrente di quanto si sapeva circa i rischi connessi alla costruzione e alla gestione dell'impianto, ne avevano condiviso le preoccupazioni. Molti anni dopo, malgrado la perdita di parenti, amici e colleghi in quella tragica notte, gli tributarono un reverente ricordo fissando sulla parete della roccia, che affianca il sentiero d'accesso al coronamento della diga, una lastra di marmo con il suo nome, accanto ad analoga lapide che ricorda i loro compagni scomparsi. Come loro, fu vittima di un'impresa eccezionale, finita, per lui, tragicamente per libera scelta.[34]

  • Vajont: storia di una diga, Francesco Niccolini (sceneggiatura), Duccio Boscoli (disegni), Padova, BeccoGiallo, 2018, ISBN 9788833140421, OCLC 1090201035.
  1. ^ a b Reberschak, p. 551.
  2. ^ Italia: Ministero dell'educazione nazionale, Bollettino ufficiale, 1939, p. 2051.
  3. ^ Edoardo Amaldi, Giovanni Battimelli, Giovanni Paoloni, 20th Century Physics: Essays and Recollections, 1998, p. 388.
  4. ^ Il Nuovo saggiatore: bollettino della Società italiana di fisica, volume 5, 1989.
  5. ^ Annuario della R. Università degli studi di Padova, 1932, p. 229.
  6. ^ Università di Padova, Annuario, 1937, p. 305.
  7. ^ Cameri, pp. 91, 93.
  8. ^ Cameri, pp. 89, 141.
  9. ^ Joaquín Díes-Cascón Sagrado, Ingeniería de Presas: Presas de Fábrica, 2001, pp. 86-87.
  10. ^ Cameri, p. 141.
  11. ^ Cameri, p. 87.
  12. ^ Vajont (PDF), su collegioingegnerivenezia.it, 14 dicembre 2018. URL consultato il 20 aprile 2020.
  13. ^ Reberschak, pp. 481-482.
  14. ^ Raimondo Selli, Livio Trevisan, Giulio Cesare Carloni, Renzo Mazzanti, Mario Ciabatti, La frana del Vajont, collana Giornale di Geologia S2, vol. 32/1, 1964.
  15. ^ a b Mario Pancini / Floriano Calvino: due altre vittime del Vajont, su fronti opposti, su vajont.info. URL consultato il 18 dicembre 2019 (archiviato dall'url originale il 4 novembre 2019).
  16. ^ a b c Uno degli imputati per il Vajont si uccide alla vigilia del processo, su archiviolastampa.it, 25 novembre 1968. URL consultato il 22 febbraio 2021.
  17. ^ Passi, p. 155.
  18. ^ Luigi Rivis, Vajont. Quello che conosco perché allora ero un addetto ai lavori e quello raccontato da altri, Belluno, Momenti AICS, 2018, pp. 55-57.
  19. ^ Reberschak, p. 537.
  20. ^ Una arringa per Longarone - Odoardo Ascari, su vajont.info. URL consultato il 18 dicembre 2019 (archiviato dall'url originale il 1º aprile 2016).
  21. ^ Reberschak, pp. 427-428.
  22. ^ Vajont, 9 ottobre '63. L'odore di quella maledetta sera, su ytali.com, 7 ottobre 2016. URL consultato il 10 ottobre 2019.
  23. ^ Cameri, pp. 92-93.
  24. ^ Edoardo Semenza, La storia del Vaiont raccontata dal geologo che ha scoperto la frana, Tecomproject, 2002, p. 125.
  25. ^ a b Lauredana Marsiglia, "Il Gazzettino": Da solo chiese giustizia per i morti del Vajont, su sopravvissutivajont.org, 29 ottobre 2002. URL consultato il 9 ottobre 2019.
  26. ^ Dall'istruttoria alla sentenza, la testimonianza del giudice Mario Fabbri sui fatti del Vajont, su bellunopress.it, 24 ottobre 2013. URL consultato il 24 novembre 2019.
  27. ^ Passi, p. 133.
  28. ^ "Il Gazzettino": A L'Aquila parla la difesa: Pancini si uccise vittima della paura, su sopravvissutivajont.org, 11 novembre 1969. URL consultato il 2019.
  29. ^ Fiorello Zangrando, "Il Gazzettino": La Presidenza del Consiglio e 10 Ministeri parti civili contro quattro degli imputati, su sopravvissutivajont.org, 27 novembre 1968. URL consultato il 12 ottobre 2019.
  30. ^ Cameri, p. 93.
  31. ^ Il terribile dramma dell'ing. Pancini che si è ucciso alla vigilia del processo, su archiviolastampa.it, 26 novembre 1968. URL consultato il 23 febbraio 2021.
  32. ^ Dal processo Vajont, ai giorni nostri, su vajont.info. URL consultato il 18 dicembre 2019 (archiviato dall'url originale il 18 maggio 2013).
  33. ^ Il Luogo dei Ricordi di Maria Galeazzi, su inmiamemoria.com, 2011. URL consultato il 14 giugno 2021 (archiviato dall'url originale il 14 giugno 2021).
  34. ^ Cameri, p. 142.
  35. ^ Vajont - La diga del disonore, su antoniogenna.net. URL consultato il 4 febbraio 2020.
  • Mario Passi, Vajont senza fine, Baldini Castoldi Dalai, 2003, ISBN 978-88-6852-039-7.
  • Gianni Cameri, I dimenticati del Vajont. I figli della SADE, Biblioteca dell'Immagine, 2010, ISBN 9-788863-910476.
  • Maurizio Reberschak, Il grande Vajont, 2013ª ed., Cierre, Immagini.

Voci correlate

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