[go: up one dir, main page]

Vai al contenuto

Morte di Stefano Cucchi

Da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà.
Targa in ricordo di Stefano Cucchi, Roma.

Citazioni sulla morte di Stefano Cucchi.

Citazioni sulla morte di Stefano Cucchi

[modifica]
  • È evidente che Ilaria Cucchi sta sfruttando la tragedia del fratello. (Carlo Giovanardi)
  • [In risposta al senatore Carlo Giovanardi sulla morte di Stefano Cucchi] Il potere dichiara che il giovane arrestato di nome Gesù figlio di Giuseppe è morto perché aveva le mani bucate e i piedi pure, considerato che faceva il falegname e maneggiando chiodi si procurava spesso degli incidenti sul lavoro. Perché parlava in pubblico e per vizio si dissetava con l'aceto, perché perdeva al gioco e i suoi vestiti finivano divisi tra i vincenti a fine di partita. I colpi riportati sopra il corpo non dipendono da flagellazioni, ma da caduta riportata mentre saliva il monte Golgota appesantito da attrezzatura non idonea e la ferita al petto non proviene da lancia in dotazione alla gendarmeria, ma da tentativo di suicidio, che infine il detenuto è deceduto perché ostinatamente aveva smesso di respirare malgrado l'ambiente ben ventilato. Più morte naturale di così toccherà solo a tal Stefano Cucchi quasi coetaneo del su menzionato. (Erri De Luca)
  • Ma i colpevoli, negli ultimi sette giorni di Stefano Cucchi, non sono (solo) i poliziotti che lo hanno pestato. E non sono neanche (solo) i medici che lo hanno lasciato morire di inedia, "perché il ragazzo rifiuta le cure". Il decesso in carcere di Cucchi, nelle prime ore del 22 ottobre 2009, è il numero 148. Al 31 dicembre dello stesso anno, quindi dopo poco più di due mesi, quella cifra è già salita a 176. Non vi sembra una cifra - e una crescita - spaventosamente enorme? Quella cifra è figlia anche dei veri colpevoli: noi. Tutti noi. Nei suoi ultimi sette giorni, Stefano viene a contatto con 140 persone. Centoquaranta. Carabinieri, giudici, agenti di polizia penitenziaria, medici, infermieri, prigionieri. Pochi o forse nessuno capiscono che quel ragazzo, di per sé destino a scomparsa con un suo codice per il quale anche esser pestato rientrava in una sorta di logica tra "buoni" e "cattivi", stia morendo. O forse lo capiscono, ma se ne fregano. Nessuno fa nulla per aiutarlo sul serio. Chi fa finta di niente, chi si volta dall'altra parte. Nonostante gli occhi pesti, i lividi, i dolori e le ecchimosi. O forse proprio per quelli. Stefano Cucchi è morto per le botte e per la dimenticanza. Era un essere umano "prescindibile" per il sistema. Sacrificabile e dunque facilmente dimenticabile. Se non è stato poi dimenticato, è solo per la battaglia di una famiglia eroica (come lo sono sempre le famiglie di chi è ammazzato senza colpe, dalla madre di Federico Aldrovandi alla famiglia di Denis Bergamini). (Andrea Scanzi)
  • Stefano Cucchi siamo noi. Tutti noi che le abbiamo prese da chi avrebbe dovuto proteggerci, tutti voi che potreste ogni giorno inciampare in scale che non smettono di picchiarvi. Non ho mai smesso, nel mio piccolo, di lottare per Stefano, di dar luce a quell'omicidio infame. Un omicidio di stato. Non smettiamo. Sosteniamo il film [Sulla mia pelle], come la famiglia Cucchi che rimane uno dei pochi motivi per essere fieri di essere italiani. Continuiamo a sentire questa ingiustizia, questa infamia sulla nostra pelle. Ogni giorno, ogni volta che avremo la tentazione di voltare lo sguardo dall'altra parte. Perché Stefano ha cominciato a morire per le botte di quei carabinieri, ma il colpo di grazia l'ha ricevuto dall'indifferenza complice di tutti coloro, con camici e divise e toghe, che non lo hanno aiutato e difeso. Solo facendo valere i suoi diritti. Umani. Bastava essere umani. (Boris Sollazzo)
  • Drogato di merda.
    Dunque, ultimo degli ultimi. Dunque privo di diritti. Dunque, non uguale di fronte alla legge degli uomini.
    Un diverso. Un Corpo a perdere. Uno di quelli di cui si dice, nel gergo di certi sbirri, che abbiano il nome all'anagrafe scritto a matita. Perché cancellarlo è un attimo. E nessuno verrà a reclamare.
    Non era la prima volta.
    Era già successo. Nel 2001, a Genova, nei giorni del G8. Nella caserma della polizia stradale di Bolzaneto. A Napoli, nella caserma Raniero. A Ferrara, a un ragazzo chiamato Federico Aldrovandi. A Varese, a un operaio che di nome faceva Giuseppe Uva.
    Drogati di merda. Comunisti e zecche di merda. Froci e lesbiche di merda. Immigrati di merda.
    Una galleria di volti tumefatti ritratti su poster a colori al collo di madri, sorelle, fidanzate, e sventolati di fronte ai palazzi di giustizia.
  • “Insomma, posso sapere come è morto mio fratello?”
    “Di arresto cardiaco, signora.”
    Anche se non era un medico, la tautologia non le sfuggiva. Tutti muoiono quando il cuore si ferma. Il problema è capire cosa lo ha fatto fermare. Lo disse. Ma non ottenne la risposta che cercava.
  • La bocca di Stefano era semiaperta, la palpebra sinistra era richiusa in modo innaturale su un'orbita che sembrava schiacciata all'interno del cranio. La palpebra destra, al contrario, non riusciva a contenere il bulbo oculare, come fosse esploso. Due giganteschi ematomi, dal viola irreale, scendevano dalle sopracciglia fino alle guance, scavate in un ovale dalla magrezza spettrale. La mandibola era storta.
    Era morto da qualche ora. Ma le sembianze di suo fratello erano quelle di un teschio.
    Riuscì a non rivolgere lo sguardo altrove. Riuscì a non piangere e a non pensare. Fissò nella mente ogni centimetro di quel volto. Ogni sfumatura del colore di quella pelle che virava al nero. Che di bianco conservava solo lo smalto dei denti. Chi lo aveva ridotto così? Stefano era morto, ma stava provando a dirle qualcosa. E c'era, nella smorfia della bocca fissata dalla rigidità della morte, lo sgomento di una fine nella disperazione della solitudine.
  • In quei cinque giorni al Pertini, del resto, la catena di omissioni sembrava non essersi mai interrotta. Tormentato da dolori indescrivibili, isolato dal mondo esterno e da una famiglia che non aveva smesso di cercarlo ma di fronte alla quale era stato alzato un muro di silenzi, Stefano era stato lasciato scivolare lungo un piano inclinato che nessuno aveva saputo o voluto tempestivamente raddrizzare.
  • Nella sua notte di Halloween, lo Stato si dimostrava capace di riconoscere a se stesso ciò che aveva ferocemente negato a una sua giovane vittima: la rigorosa applicazione delle garanzie processuali, l'habeas corpus, l'intangibilità fisica e psicologica di chi è accusato di un reato, la presunzione della sua innocenza. Quei princìpi trovavano applicazione nei confronti di agenti penitenziari, medici e infermieri del “reparto protetto” dell'ospedale Sandro Pertini. Ma non erano valsi mai, neppure per un istante, per un ragazzo la cui unica colpa era stata quella di consegnare docilmente i propri polsi alle manette di chi lo aveva arrestato per piccolo spaccio.
  • “Ora lei mi deve dire come è morto mio figlio.”
    “Signora, purtroppo...”
    “No. Voglio sapere perché è morto. Come è stato possibile? Stava bene.”
    “Guardi, mi creda, io purtroppo non ho notizie. A noi non viene detto nulla.”
    “Lo avete arrestato voi mio figlio. Sette giorni fa. Siete venuti in questa casa...”
    “Non noi signora...”
    “I carabinieri. E lei è un carabiniere.”
    “Voglio dire che noi non c'entriamo con quello che è successo a suo figlio. La divisa che porto non ha colpa, mi creda.”
    “Qualcuno ce l'avrà.”
    Il maresciallo riordinò le carte sul tavolo. E fece cenno all'appuntato di guadagnare la porta.
    “Non so che dirle, signora. Se non che mi dispiace. Arrivederci.”
  • “Stefano potrebbe morire un'altra volta. O due, o tre. E l'assassinio della memoria di un uomo, credetemi, è persino peggio della sua scomparsa da vivo. È un veleno che impedisce alle ferite di cicatrizzarsi. Vedete, io tutto questo non potrò impedirlo. Perché tutto questo, purtroppo, non dipende soltanto da me, né da voi. In questi processi non esiste soltanto la controparte. E che controparte, visto che qui parliamo dello Stato. In questi processi, non combatti solo con chi copre la verità per nascondere la propria responsabilità. Esiste un nemico più subdolo e per questo persino più forte.”
    “Quale?”
    “Il senso comune.”
  • "Tutti hanno un'unica esigenza. Mettere le carte a posto."
    Già, le carte a posto. Se doveva immaginare un epitaffio alla storia di Stefano, all'ignavia dello Stato, al cinismo dei suoi “servitori”, più o meno fedeli che fossero, quella era l'espressione che meglio li riassumeva. Un veleno che silenziosamente corrode i diritti di ciascuno trasformandoli in concessioni, che degrada i cittadini in sudditi e definisce le pubbliche amministrazioni quali macchine impersonali, ossessionate e dunque governate esclusivamente da un principio di autoconservazione. Tanto inefficiente quanto prevaricante.

Voci correlate

[modifica]

Altri progetti

[modifica]