[go: up one dir, main page]

Vai al contenuto

Ludovico il Moro

Da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà.
Ludovico il Moro

Ludovico Maria Sforza detto il Moro (1452 – 1508), duca di Bari e di Milano.

Citazioni di Ludovico il Moro

[modifica]
  • [Della moglie Beatrice d'Este] Essa mi è più cara che il lume del sole.[1]
  • In prigione assumo come mio motto che mi armo di pazienza a causa delle pene che mi vengono inflitte.[2]
  • La Fortuna non premia i temerari.[2]
  • La ill.ma nostra consorte, essendoli questa nocte alle due hore venuto le dolie, alle cinque hore parturite uno fiolo maschio morto, et alle sei et meza rese el spirito a Dio, del quale acerbo et immaturo caso se trovamo in tanta amaritudine et cordolio quanta sij possibile sentire, et tanta che più grato ce saria stato morire noi prima et non vederne manchare quella che era la più cara cossa havessimo a questo mundo.[3]
  • Lassamo ancora per ordine quale non se immutti, che alle potestarie de le cità se elezano homini de honorevole grado, docti et boni, et se dagi questo honore alla sufficientia et virtù, et non per dinari, como la necessità di tempi qualche volta ha strecto, perché non si po sperare sincero offitio, né l'administratione de integra iustitia da quello che habii obtenuto el loco per pretio.[4]
  • [Versi iscritti sulle pareti della cella poco prima della morte] Quando morte mi assale e non posso morire, | e non mi si vuole soccorrere, ma farmi sgarbo, | e allontanare da me ogni allegrezza, che cosa devo ancora andare cercando? | Non ho bisogno di cercare la mia dama perché mi guarisca, | né di inseguire un'altra signora.[2]
  • [Sulla morte della moglie] Triste diventa al suo finire ogni cosa che fra i mortali era apparsa felice.
Atra in fine suo fiunt omnia quae intra mortales felicitatem habuisse videntur.[5]
  • [...] li quali [veneziani] sono troppo possenti et non moreno mai [...] né per niuno tempo sua Maestà [Luigi XII] se ne debe fidare, perché pò ben pigliare exemplo da mi, che ero suo colligato, come mi hano tradito.[6]
  • Una medesima regola serve a fare cognoscere e' principi e le balestre. Se la balestra è buona o no, si cognosce dalle frecce che tira; così el valore de' principi si cognosce dalla qualità degli uomini mandano fuora.[7]

Citazioni su Ludovico il Moro

[modifica]
  • Al nostro duca venne a mancare il consiglio più efficace, l'anima delle sue imprese, colla morte della invitta Beatrice d'Este, che lui a sua voglia dominava, ed alla quale ostentava pubblicamente uno straordinario affetto, e da quell'ora non gli arrise più infatti sì propizia fortuna. (Pier Ambrogio Curti)
  • Al principio di quell'anno, cioè il 2 gennaio 1497, Lodovico ebbe la fatale sventura di veder morire di parto in Pavia, nella giovane età di ventidue anni, insieme al neonato Leone la consorte Beatrice, lasciandogli due figli in tenera età, Massimiliano di sei anni e Francesco di quattro. Benché Lodovico avesse talora avuto con essa modi brutali e malgrado le sue palesi relazioni con Cecilia Gallerani e Lucrezia Crivelli, egli le aveva sempre dimostrato grandissimo affetto. Ma più forse che vero amore per la nobile giovanetta il Moro sentiva profonda devozione per la donna di alto sentire che lo aveva sempre virilmente rinfrancato, quando il suo animo astuto e fastoso, ma non coraggioso, si abbandonava a volgarissimo sconforto. (Gustavo Uzielli)
  • [Su una terribile rissa scoppiata al campo di Novara] A hore due di notte, li elemani ducheschi si levò a romor con li italiani; unde tutto el campo si messe in arme, et maxime el nostro. Fo per un'hora gran tumulto, morti de tutte do parti [...] et el Marchexe de Mantoa [Francesco II Gonzaga], nostro capetanio, volendo reparar a questi se amazavano, disse al Ducha: "Signor, venite a remediar". Il Ducha rispose: "Ma, mia moier..." Et il Marchexe rispose: "Mettetila ne li forzieri!" etc. Et dicitur fo tanti morti in questa baruffa, che fo cargi 7 carri de corpi, et mandati a sepelir. (Marin Sanudo il Giovane)
  • Cecilia Gallerani e Lucrezia Crivelli soddisfacevano a Lodovico le aspirazioni del cuore e dei sensi, Beatrice [d'Este] era sprone alla sua ambizione. Egli lo sentiva. Quindi la morte della Duchessa fu certo causa in lui di profondo e sincero pianto.
    Tale infausto avvenimento segnò per il Moro il principio di una serie di sventure che sembrarono realizzare i tristi presentimenti di lui e che lo accasciarono, come non avrebbe certamente fatto se esso avesse avuto a fianco la nobile e fiera Consorte. (Gustavo Uzielli)
  • E di vero la morte di Beatrice, la superba ed intelligente ferrarese, fu una grave sciagura per Ludovico il Moro. Essa era l'anima d'ogni sua impresa, era la vera regina del suo cuore e della sua corte [...]. Se il duca di Bari [...] riuscì a rappresentare sul teatro d'Europa una scena d'assai superiore, come fu osservato, alla condizione sua, lo si deve in gran parte a questa donna, vana femminilmente, se si vuole, e crudele, specie con la duchessa Isabella, ma di carattere risoluto e tenace, d'ingegno pronto, d'animo aperto a tutte le seduzioni del lusso e a tutte le attrattive dell'arte. Quando essa [...] venne meno [...] fu come una grande bufera che venne a sconvolgere l'animo di Ludovico. Né da essa ei si rimise più mai; quella morte fu il principio delle sue sciagure. Tetri presentimenti gli traversavano la mente; parevagli d'essere rimasto solo in un gran mare in tempesta e inclinava, pauroso, all'ascetismo. [...] il fantasma della sua bella e povera morta gli stava sempre dinanzi allo spirito. (Rodolfo Renier)
  • E infatti fu questo il più forte dolore che il Moro avesse a soffrire, perché Beatrice fu forse l'unica persona al mondo che egli amò con passione viva, disinteressata e tenace. Quella donna rapita ai vivi mentre era ancora così giovane, mentre era l'anima di tutte le imprese e i diletti del marito, madre da pochi anni di due fanciullini adorati, colpì il cuore di tutti. (Alessandro Luzio e Rodolfo Renier)
  • [Su una grave malattia di Beatrice nel 1492] El Signore Ludovico la acarezza per modo che l'è uno stupore, basandola spesso, dimandandola perlina mia, vita mia, per modo che me move et intenerisse me a lacrimare [...] Il Signore Ludovico persevera pur in demonstratione de smesurato amore, e dice non [havere altro] piacere sopra quello lui sente a stare, et a parlare cum lei; la acareza per modo che pare anche acarezare fina el fanzulino che l'ha nel corpo; lei se governa cum gesti et modi pieni de venustate et de honestate insieme, subridendo cum lei e dulcemente parlando e risguardandolo, che me representa una mixtura de Venere e de Diana [...] In summa, considerando ogni cossa cum lo amore smesurato del marito, non credo che se ritrovi al mundo una altra dona meglio maritata de epsa. (Ludovico Carri)
  • Hai compra | la servitù d'Italia, e quanto costa | saper non puoi; lo sveleranno i molti | secoli di sventura e di vergogna, | che tu sul capo alla tua patria aduni. (Giovan Battista Niccolini)
  • [Sulla bruttezza di Ludovico neonato] Ho avisata la Illustre Signoria Vostra como mediante la divina gratia ho aparturito uno bello fiolo [...] se degni de pensare de metergli un bello nome ad ciò che'l supplisca in parte alla figura del puto che è il più sozo de tuti li altri. Del fronte e dela bocha el someglia mi et dela parucha el somiglia la Signoria Vostra siche podeti pensare como el debe essere bello. Sono però certa che quando il vedriti non vi parrà tropo diforme anzi spero che vi piacerà forsi tanto quanto veruno del altri. (Bianca Maria Visconti)
  • Humanissimo et molto facile a dare udienza et l' animo suo non è vinto mai dalla collera. Moderatamente et con patienza grande rendeva ragione, et con singolar liberalità favoriva gli ingegni chiari o nelle lettere o nell'arti nobili. Et finalmente quando ne veniva la carestia o la peste, della vettovaglia et della sanità grandissima cura teneva; et tolti via i rubbamenti, et drizzati a filo gli ediflici goffi della città, arrecò tanto splendore et ricchezza alla Lombardia, che da tutti era chiamato edificatore della pace aurea, della pubblica sicurezza et della leggiadria. (Paolo Giovio)
  • La maniera con cui seppe impadronirsi del Ducato, destreggiandosi tra le potenze vicine, che tutte lo tenevano d'occhio, é una specie di capolavoro della politica personale del rinascimento. Levato così in alto per via di accortezza, non seppe mantenervisi. Ad esser completo gli mancava il coraggio. Pusillanime lo dice il Commines, che lo trattò; pusillanime e doppio. Della parola data non teneva alcun conto; mentre stringeva un patto, pensava al modo di mancarvi, se gli fosse tornato comodo. Tale doppiezza avrebbe potuto valergli; ma congiunta con la paura fu la sua rovina. Sospettoso ora di Napoli, ora di Venezia, chiama i Francesi ed è il primo a temerne e si fa alleato l' Imperatore. La sua politica continuamente vacillante gli fa nemici tutti, onde è costretto a finire nella miseria della cattività di Loches. Ma è male il giudicarlo tutto sinistramente, come vollero molti storici. Nella sua figura v'è della grandezza. [...] Quando non erano in giuoco i suoi interessi politici, era umano e gentile con tutti, mite, largo, benefico. (Alessandro Luzio e Rodolfo Renier)
  • La principessa ai suoi [di Carlo VIII di Francia] occhi era sembrata molto amabile, egli le offrì di ballare; Ludovico non era così preoccupato per questo come per gli entusiasmi del sire di Beauveau nei confronti della principessa sua moglie: Beauvau era un signore della corte di Carlo VIII, il più abile a farsi rapidamente amare dalle donne; egli ebbe l'audacia di voler compiacere la principessa. Ludovico, che se ne accorse, vedendo che i francesi avevano l'ardire di aggredire la gloria di un principe il quale, benché non avesse ancora la qualità di sovrano, ne aveva tutta l'autorità, si congedò dal re, e si ritirò in un castello a due passi da Asti, dove ogni giorno il Consiglio del Re andava a trovarlo. (Pierre de Lesconvel)
  • La qual morte [della moglie] el ducha non poteva tolerar per il grande amor li portava, et diceva non si voller più curar né de figlioli, né di stato, né di cossa mondana, et apena voleva viver [...] Et d’indi esso ducha comenzoe [cominciò] a sentir de gran affanni, che prima sempre era vixo [vissuto] felice. (Marin Sanudo il Giovane)
  • Lì siamo stati un po' tentati di essere duri con Ludovico: l'indignazione patriottica con cui Guicciardini flagella così eloquentemente "quest'uomo nato per il divertimento e la ricchezza, così abile banchiere, così miserabile e vile soldato, bugiardo, traditore e assassino", che, nell'ora del pericolo, sapeva solo nascondersi e piangere, al quale doveva venire sua moglie Beatrice a fare vergogna della sua codardia, un commerciante incapace di mettersi alla testa di un battaglione, questa indignazione, questo disprezzo si sentiva ovunque, e a Venezia. Si credeva strano che Ludovico, informato all'epoca della marcia del duca d'Orléans, avesse permesso a Sanseverino di ritirarsi, che si fosse limitato a proclami, ad agitazioni, a spese, a parole di prepotenza. Aveva parlato di radunare ventimila uomini, di mandare Sanseverino a Novara, di andarvi di persona, di ricevere adeguatamente «i barbari». Poi, niente! si stava nascondendo! (René Maulde-La-Clavière)
  • Lodovico [...] talmente era avvilito d'animo, che divisava di ricoverarsi in Arragona, ed ivi tranquillamente finire i suoi giorni in condizione privata. Ma Beatrice d'Este, come donna d'animo forte e valorosa, lo rincorò, e lo fece una volta pensar da Sovrano. (Carlo Morbio)
  • Ludovico Sforza, che ne' consigli volle esser sopraumano, e nell'operare apparve poco più di femmina. (Camillo Porzio)
  • [Luigi duca d'Orléans] in pochi giorni allestì un'armata piuttosto bella, con cui entrò a Novara e la prese, e in pochi giorni parimenti ebbe il castello, cosa che incuté una grande paura a Ludovico Sforza, e fu quasi prossimo alla disperazione per la propria sorte, se non fosse stato confortato dalla moglie Beatrice [...] O poca gloria di un principe, al quale bisogna che la virtù di una donna doni il coraggio e gli faccia la guerra, per la salvezza del dominio! (Alessandro Salvago)
  • Son quel duca de Milano| che con pianto sto in dolore, | son sugiato, che era signore | hora son fato alemano. | Io dicevo che un sol Dio | era in ciel e un Moro in terra, | e sicondo il mio disio | io facevo e pace e guerra; | in Italia me par che erra | el mio dir, ch'io son scaciato, | da ciascuno abandonato; | il pensier è gito invano. | Son quel duca de Milano... | [...] Mi lamento di fortuna | che m'ha fatto abandonare | le mie terre ad una ad una, | senza sol un batagliare: | come questo Idio po' fare, | che un potente gran ducato | habi avuto scaco mato | senza sangue, sì tostano? | Son quel duca de Milano... | [...] Io non son più Lodovico, | Io non son più el Mor felice, | sono un povero mendico | che per piani e per pendice | son scacciato da infelice; | da che mi mostrava amore | poi m'a facto poco honore, | mai pegiore non fu Gano. | Son quel duca de Milano [...] (Lamento di Ludovico il Moro, composto da un suo "fidele cangilero" al tempo della sua caduta)[8]
  • Quanti diversi giudizi intorno al Moro! Chi non vede in lui che il traditore, chi lo dice un tiranno feroce, chi il miglior principe dei suoi tempi, chi lo chiama vile, chi per certi rispetti un eroe, chi lo proclama il Cavour del suo secolo, chi il Pericle della Lombardia, chi il Machbet italiano, chi lo presenta come un essere smorto «la negazione di ciò che si chiama carattere», chi ne fa «la più perfetta figura principesca d'allora». Veramente, a nessuno forse dei suoi contemporanei si può applicare così bene come a lui quella frase del Macaulay sull'uomo nel Machiavelli «che non sembra (a prima vista) altro che un enigma, un insieme grottesco di qualità incongrue.» Egli aveva molto ingegno: era sagace, destro, coltissimo, di fantasia lucida, minuziosa; al Burkardt pare «un uomo superiore.» Eppure, benché per lo più «modesto nel parlare», era vanaglorioso, qualità delle menti piccine. - La prudenza, di cui faceva il suo massimo vanto, non impediva che fosse pieno di disegni strani e temerari. – Mente raffinata, calcolatrice, animo corrotto, ci stupisce l'ingenuità della sua passione e della sua fede nelle sue arti di governo. Per alcuni rispetti ci appare costante, tenace, per altri mutabilissimo. Per lo più era padrone di sé stesso, «mai non lo superava la collera», «merito et tempore» si leggeva sul suo scudo, pure talvolta appariva schizzinoso, permaloso, tal'altra, davanti a difficoltà impensate, il troppo calcolare lo rendeva incerto e sgomento, onde l'accusa di pusillanimità, di viltà, di timidità; la quale non toglie che il Michelet, non senza ogni ragione, lo ponesse fra gli eroi dell'astuzia e della pazienza. – In politica era l'uomo più spregiudicato del mondo, in religione superstizioso, soggetto a impeti di devozione paurosa, obbediva agli astrologhi. — «Mitissime principes» lo chiamavano i suoi poeti, era pieno d'affabilità, il suo affetto per la moglie ci commuove ancora, eppure lo strazio che fece di Galeazzo e d'Isabella mise orrore al suo secolo sanguinario. Non mancano nella sua vita, fra i tanti tradimenti, i tratti di generosità, eppure il suo egoismo causò la rovina d'Italia. Come mai qualità così diverse potevano star unite in un sol uomo? [...] Galeazzo ebbe dal padre l'ardore del sangue, la forza di Francesco traboccò in lui in violenza, la sensualità in sfrenata libidine. Ludovico ereditò, senza il contrappeso dell'energia nell'azione, l'astuzia, la pazienza, a cui aggiunse un che di femminile e delicato l'influenza della madre. Un'indole mansueta, pieghevolezza, diligenza, attività, sottigliezza d'ingegno [...] tutte le miserabili guerre di quegli anni furono di natura da persuaderlo sin d'allora di quello ch' egli ripeteva poi sovente, che spesso nel maneggiar le guerre ha più forza una penna da scrivere che una spada. [...] Il nero tradimento contro il nipote, eseguito con tanta raffinatezza e tenacia fa vedere a che punto, colla sua indole mite, paziente, ingegnosa, egli potesse pervertirsi nel male e farne quasi un'opera d'arte, punto dallo sprone dell'egoismo e d’un partito scelto dalla fredda ragione. (Achille Dina)
  • Mi è stato sempre difficile a credere che Dio abbia a permettere che e' figliuoli del duca Lodovico abbino a godere lo stato di Milano, non tanto perché lui lo usurpò sceleratamente, quanto che, per fare questo, fu causa della servitù e ruina di tutta Italia, e di tanti travagli seguiti in tutta la cristianità.
  • Non manco timido nell'avversità, che immoderato nelle prosperità, come quasi sempre è congiunta in un medesimo soggetto l'insolenza con la timidità, dimostrava con inutili lagrime la sua viltà.
  • Principe vigilantissimo e d'ingegno molto acuto.
  • Se bene e' fu signore di grande ingegno e valente uomo, e così mancassi di crudeltà e di molti vizii che sogliono avere i tiranni, e potessi per molte considerazioni essere chiamato uomo virtuoso, pure queste virtù furono oscurate e coperte da molti vizii; perché e' fu disonesto nel peccato della sodomia, e come molti dissono, ancora da vecchio non meno paziente che agente; fu avaro, vario, mutabile, e di poco animo; ma quello perché trovò meno compassione fu una ambizione infinita, la quale, per essere arbitro di Italia, lo constrinse a fare passare il re Carlo e empiere Italia di barbari.

Citazioni in ordine temporale.

  • Nonostante la sua fiducia negli astrologi Lodovico il Moro non arrivò fino a permettere che essi, col pretesto di predire il futuro, s'occupassero di politica e si sostituissero a lui. Quando – nell'estate del 1485 – certo maestro Leone medico solennissimo, grande astrologo et universalmente doctissimo ma sopratutto archimista, non contento di star molto in Rocchetta col castellano che anche se delecta de archimia, incominciò a praticar troppo con l'ambasciatore veneto e volle intromettersi nelle cose politiche per divulgar ciancie, il Moro lo licenziò, imponendogli di abbandonare il ducato entro due giorni, pena la forca[9]. il Moro stesso ebbe poi a giustificare le sue fisime astrologiche dichiarando esplicitamente che prima pregava Iddio, poi studiava le stelle come seconde cause per sapere mitigare el male et seguitare el bene[10].
  • Lodovico Sforza, come moltissimi del suo tempo, univa a diversi pregiudizi, che oggi sarebbero riprovati, un vero sentimento religioso. Frequentava le chiese, ascoltava messa a Santa Maria delle Grazie – che per esser la chiesa più vicina al castello godeva la sua protezione, della quale diede prove palesi – nutriva amicizia per il priore di quel convento e spesso, come ricorda l'ambasciatore estense Antonio Costabili, dopo le sacre funzioni si ritirava nel giardino di quei frati per leggere la corrispondenza e ricevere qualche ambasciatore.
  • Non pochi difetti attribuirono al duca gli storici. Pusillanime e doppio lo dissero alcuni che lo conobbero – e fra questi il Commines[11] – audace nei progetti, non altrettanto coraggioso nell'attuarli e nel mantenersi all'altezza a cui gli avvenimenti lo portavano. Fu accusato spesso di non mantener la parola data, di esser sospettoso di tutti accelerando la propria rovina.
  • Giustamente uno scrittore moderno, il Burckhardt[12], che vide molto addentro nei fatti di quell'età, lo disse la più perfetta figura del rinascimento italiano.
  • Nella vita pubblica come nella privata, la figura di Lodovico appare indubbiamente simpatica, anche se non può dirsi una grande figura. Bonario, amante della pace, alieno fin che poté da quei pericolosi ardimenti che pur avevano fatto forte il suo ducato mercé l'iniziativa di alcuni de' suoi antenati, e potente e temuta la sua famiglia, egli per vent'anni rivolse quasi esclusivamente la sua attività in favor dei cittadini e de' suoi. Elegante, prestante di figura (i poeti ne lodavano la formosita), colto, buon scrittore in volgare e in latino, arguto, incoraggiatore delle lettere [...] oratore piacevole, amante dei lieti conversari e della musica certo più che non fosse della pittura, [..]; agricoltore appassionato e introduttore da noi di nuove coltivazioni e industrie agricole, moderno di idee nel voler leggi provvide e liberali – il suo gridario sta a provarlo – Lodovico il Moro, se non ci adombra una comunanza di qualche anno con tutto ciò che lo riguarda, è, a nostro modo di vedere, la più attraente, la più completa figura di gentiluomo della Rinascenza italiana.
  • Fu questo signor Ludovico Sforza da la negrezza del colore cognominato Moro; così appellato primieramente dal patre Francesco et Bianca matre, Duchi de Milano, ne li primi anni, mentre con lui ancora fanciullo blandamente ragionando scherzavano.
  • Fu ultra li altri fratelli dedito alli studii; et per il bono ingengo suo facilmente capiva li sensi de li autori, di modo che, fra tutti li altri dominarono mai Milano, fu il più litterato. Et con questo suo ingegno accompagnato da la prudenzia, pervenendo alli anni più maturi et al governo dil stato, fu reputato pusillanimo: dil che non è maraviglia; perocché, fidandosi troppo de la accortezza sua et di saper prendere l'atto a tutte le occorenzie con ignegno solo et experienzia, senza forza d'arme, in tanta viltà de animo trascorse, che parea paventasse non che alla presenza dove si avesse a maneggiar arme, ma dove si nominassero cose atroci et crudele. Per la qual cosa, non comprendendosi molto grato alli populari, quali naturalmente amano signori che, ultra la liberalità, siano animosi, et che con loro et soldati, dove sia al bisogno, si mettano in pericolo; favoreggiò molto più li forastieri che li suoi; et de quelli alcuni ne amò con tanto fervore che, in breve tempo, de men che mediocri li fece ricchissimi.
  • [Gian Giacomo Trivulzio a Ludovico dopo la sua cattura] Or sei tu qui, Ludovico Sforza, il quale per amor d'un forastiero Galeazzo Sanseverino hai scacciato me tuo cittadino, né d'una sol volta d'avermi cacciato bastandoti, hai novamente sollicitato li animi de' Milanesi a rebellarsi alla regia Maestà? A che bassamente rispondendo, il principe disse, che a conoscer la causa perché l'animo si inchini ad amar uno et odia l'altro è difficil cosa.

Note

[modifica]
  1. Francesco Malaguzzi Valeri, La corte di Lodovico il Moro - la vita privata e l'arte a Milano nella seconda metà del Quattrocento, vol. 1, Milano, Hoepli, 1913, pp. 438-439.
  2. a b c Citato in Ivan Cloulas, La vita quotidiana nei castelli della Loira nel Rinascimento, Rizzoli, Milano, 2019, p. 76. ISBN 9788858695692
  3. Citato in Julia Mary Cartwright, Beatrice d'Este, Duchessa di Milano, 1475-1497, traduzione di A. G. C., Edizioni Cenobio, Milano,1945, pp. 275-276.
  4. Testamento di Ludovico il Moro, 1497; citato in G. Molini, Documenti di storia italiana, Firenze, 1936, p. 325.
  5. Citato con traduzione in Gian Guido Belloni, Il Castello Sforzesco di Milano, Bramante, Milano, 1966, p. 25.
  6. Citato in Sirio Attilio Nulli, Ludovico il Moro, Edizioni Alpes, Milano, 1929, p. 329.
  7. Francesco Guicciardini, Ricordi, C 171. In Opere, a cura di Roberto Palmarocchi, Laterza, Bari, 1933.
  8. Lamenti de' secoli XIV e XV, di conte Antonio Medin, 1883, p. 171 e seguenti
  9. Arch. di Stato di Modena. Cancelleria Ducale, 2 luglio 1485. [N.d.A.]
  10. A. Luzio. Isabella d'Este e la corte sforzesca (in Arch. St. Lomb. 1901, pag. 152). [N.d.A.]
  11. Philippe de Commynes, o de Commines (1445 o 1447 – 1511), cronista e politico francese di origine fiamminga.
  12. Jacob Burckhardt (1818 – 1897), storico svizzero. La sua opera più nota è La civiltà del Rinascimento in Italia.

Altri progetti

[modifica]