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La vigna sul mare/Ritorno in città

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Ritorno in città

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Inverno precoce

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RITORNO IN CITTÀ

Felicissima si presenta la prima gita dopo il recente nostro ritorno in città. Si tratta di andare alla Banca, a ritirare quattrini. Quattrini santamente guadagnati, e disposti a essere ancora più santamente spesi: poiché la nostra casa ha bisogno di urgenti riparazioni, prima che l’inverno vi ci chiuda dentro: e per l’inverno occorre rinnovare i caldi vestiti, e le soffici coperte di lana che col loro discreto tepore ci riporteranno, nei sogni tranquilli ed egoisti, alle belle spiagge e alle auree colline appena adesso abbandonate.

Ma anche il lusso di comprare qualche libro ce lo possiamo permettere; ed anche quello di un’automobile alla porta di casa, che ci farà rivedere la nostra grande tradita città, da signori pur sempre degni di lei. Oh, quanto ti abbiamo non solo tradito, ma anche odiato e calunniato, da lontano, amica città! Si capisce, però: il mare e la campagna, che ci offrivano [p. 283 modifica]a gara le loro opulenze estive, i tramonti appassionati, e i pesci e i polli e i frutti per niente, facevano di tutto per sostituirti nel nostro cuore.

Ma tu adesso ci perdoni: l’azzurro del tuo cielo è oggi più commovente di quello sopra i poggi dell’estrema Toscana, e lo strido delle sirene più musicale di quello delle ghiandaie nei loro querceti: e il verde dei tuoi viali, che si tinge di rosso e di rame come le belle donne che vi passeggiano sotto, cancella il ricordo delle strade alberate della Valle Padana.

Si direbbe che questa diafana mattina di mezz’autunno, la città l’abbia tenuta in serbo per quelli che ritornano a casa dalla campagna con un cestino d’uva in mano, e il rancore e la diffidenza nel cuore: o forse tutto ci sembra più bello perché abbiamo in tasca un discreto assegno bancario, e, vista attraverso i vetri di un’automobile, la gente affollata nelle stazioni tranviarie ci ricorda le feste della rotonda balneare. Del resto, le donne sono forse le stesse, e non meno agili e spensierate; pronte sempre alla danza della vita: anche questa, che si distacca dal gruppo per proseguire a piedi la strada, e ha le calze e le scarpette grigie, rimasuglio di eleganza della sua esistenza di signorina. Adesso ha marito, e ritorna dal fare la spesa. Coraggiosamente ha adottato, invece della ipocrita valigetta, una bella sporta contadinesca, [p. 284 modifica]dalla quale trabocca un fresco mazzo di spinaci: ma non è questo che ci commuove: è, invece, il bambino in maglietta rossa, che, rimorchiato dalla mano di lei, la segue quasi a volo, libero, per il sostegno e la protezione sicura ai quali si abbandona, di volgersi a guardare di qua e di là, con gli occhi azzurri pieni delle meraviglie che vede. Ed entrambi, madre e figlio, se ne vanno tranquilli fra la calca della gente attraversando felicemente gli ostacoli, evitando i pericoli, come circonfusi da un fluido miracoloso. Anche la spazzina con la testa di Medusa grigia, che si attarda sul margine della strada, ferma sullo scettro della sua scopa, e rosicchia un pezzo di pane impolverato, non ha paura del traffico: anzi ne sembra il pernio, poiché tutti girano intorno a lei, e sono i veicoli a evitarla.

Sente anche lei la bella giornata, e forse per questo s’indugia nella sua barbara faccenda: e più di lei sentono certamente il tempo i giovani operai che scavano le buche della strada in riparazione, perché canticchiano e scherzano fra di loro, minacciandosi graziosamente con le pale, insensibili al resto come contadini che zappano la loro terra.

Arrivati a questo punto della strada, bisogna scendere dall’automobile e proseguire a piedi: cosa piacevole anche questa, anzi la più piacevole di tutte. Questo tratto di strada, proibito [p. 285 modifica]ai veicoli, è selciato di fresco, e ci si può camminare come si vuole: tratto di strada in questo momento sontuosamente provinciale, e che anzi, a farlo senza osservare le debite proporzioni dei palazzi, delle vetrine e delle insegne, ci ricorda il Corso della città natìa nelle perlate mattine domenicali, quando lo si attraversava per andare alla messa cantata. Poca gente lo percorre, senza fretta, anzi indugiandosi in questa cuccagna di pedoni non minacciati di massacro: sono coppie forestiere, stagionate, lui in corretto costume da mattina, lei con la mantellina di percalle e il cappello in cima alla testa di giraffa curiosa: o pacifici pensionati nostrani, arzilli ancora per le recenti cure termali; e scolaretti che portano la borsa dei libri con atteggiamento equivoco, come lo zaino i soldati disertori; signore eleganti che hanno lasciato a casa la cuoca e girano per i negozi in cerca delle loro cianfrusaglie: e infine gente che va alla Banca. Alla Banca ci si entra in silenzio, come in chiesa; e delle chiese essa ha la scalinata d’ingresso, le vetrate, le colonne, le nicchie; l’usciere in tenuta nera può rappresentare il sagrestano; e, per la gente moderna, il rito che gl’impiegati compiono dietro gli sportelli non è meno sacro di quelli religiosi: sopratutto in quello dei pagamenti; i biglietti da mille vengono ricevuti come ostie consacrate, e chi li riceve se ne va poi compunto, abbottonato [p. 286 modifica]e santo. Non meno grave è l’aspetto di chi sta seduto davanti alla grande tavola centrale, e scrive sui moduli o fa i suoi conti con la concentrazione di un matematico o di un letterato; ed anche qui c’è gente d’ogni grado, poveri e ricchi, borghesi e militari: anzi, uno di questi attira la nostra più schietta ammirazione: è un bellissimo carabiniere, alto, con la vita sottile, i capelli color mogano che gareggiano col luccichìo della tavola; la sua ricca divisa ricorda quella di Napoleone: un carabiniere, insomma, che anche i banditi si fermerebbero ad ammirare.

E adesso è la nostra volta di accostarci al rito; ma esaminato l’assegno, l’impiegato solleva la testa di fungo porcino e ci domanda se abbiamo chi ci faccia garanzia.

— Non basta il nome?

Questa è la nostra presuntuosa replica; l’aspetto placido del funzionario ci ricorda però l’episodio postale di un nostro caro gloriosissimo amico, il quale, andato a ritirare un’assicurata, senza altri segni di riconoscimento che il suo celebre nome, si sentì rispondere:

— Mai conosciuto, mai sentito nominare.

Altra nostra replica: — Abbiamo il passaporto — ma non senza una certa contentezza che il numero dei nostri anni rimanga sconosciuto all’impiegato, ci viene risposto che neppure quello basta. E allora non ci resta che tornare un altro [p. 287 modifica]giorno, con un notaio che autentichi la nostra firma: cosa che, amaramente pensiamo, non sarebbe avvenuta nella polverosa e chiara Banca Agricola dove l’estate scorsa si andava a fare le nostre operazioni, e dove i coloni, i salinari, i sensali di pesce, ed anche i grossi fattori di grandi poderi, si scostavano rispettosamente dallo sportello, per farci posto, pronti tutti a garantire la nostra personalità.

Con questo primo sbollire del nostro entusiasmo per la vita cittadina, si esce dal tempio; e il viaggio di ritorno è quindi alquanto mortificato, non per la mancata riscossione, ma per l’accertamento che lustri e lustri di lavoro intellettuale contano meno che zero nel cuore di un impiegato di Banca. Si sente davvero, ancora una volta, quanto il mondo di noi poveri e orgogliosi lavoratori della penna è lontano dal mondo degli altri; eppure, dopo un momento, questo mondo ridiventa ancora nostro, ci riafferra nella sua ruota, ci trasporta nel suo movimento. Abbiamo in tasca ancora un po’ di quattrini per poter entrare in una fabbrica di maglierie di lana, dove la commessa, bionda e opulenta come una vigna di ottobre, ci consola, riconoscendoci per suoi clienti, e con gentilezza ci domanda notizie della nostra salute; non solo, ma ci fa sapere che quest’anno c’è una forte vendita d’indumenti di lana, anche per signore e signori giovani, poiché il troppo strapazzo [p. 288 modifica]della vita moderna produce l’acido urico. Scarso è il conforto che questa notizia ci porta: e il nostro malumore si disperde piuttosto all’uscire di nuovo nella bella strada adesso tutta ricca di sole e di movimento. Alle logge degli appartamenti di lusso, nei piani nobili dei palazzi, si affacciano le cameriere di «bella presenza» col piumino da spolvero nascosto dietro la schiena; e giù, sui marciapiedi davanti ai caffè, ancora lieti di sedie e tavolini estivi, i forestieri incantati prendono l’aperitivo, godendosi a modo loro la città.

Godiamocela anche noi, a modo nostro, fermandoci davanti alla vetrina del libraio, dove i libri, ingenuamente vanitosi, ormai si lodano da sé stessi sulle fascette delle copertine; e poi risalendo in macchina e salutando a volo le fontane, le ville, i parchi, fino ai quieti sobborghi, pervasi ancora dalla musica biblica della chitarra e del violino ambulanti, e dove il viso della nostra dimora, scolorito per il lungo abbandono, ci avverte che è tempo di rientrare a casa e rimetterci a lavorare.