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Del veltro allegorico di Dante/XXIX.

XXIX.

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XXVIII. XXX.

[p. 51 modifica]XXIX. Senza dubbio l’amore del figlio avea menato l’Alighieri a Padova, per non privare il giovinetto dall’opportunitá degli studi. Tolto amichevole commiato dal Faggiolano, potè Dante agevolmente dalla Romagna girne a Venezia per mare, se amava di schifare gli stati guelfi di Bologna e di Ferrara. Trentanove giorni dopo il suo congresso coi Pappafava in Padova, l’Alighieri scorgesi giunto in Lunigiana, ove discese per Mantova e Parma governate dai ghibellini. Di Parma breve tragitto per Fornovo e Pontremoli mette in Val di Magra, nella quale il ricevè Franceschino Malaspina di Mulazzo cognato di Giberto di Correggio, e padre di Moroello; non che cugino dell’altro Moroello capitano del popolo pistoiese. Avevano guerra i Malaspina di Mulazzo col genovese Antonio Canulla, vescovo di Luni, che stanziava in Castelnuovo presso a Sarzana. Bramoso di pace, Franceschino pregò il poeta di volerla trattare; concedutogli nel di 6 ottobre 1306 ogni facoltá di fermarla. Dante non indugiò; e nel giorno medesimo fu stabilita in Castelnuovo la pace tra Franceschino ed il vescovo, gli atti della quale si custodiscono a Sarzana fra le piú onorevoli cose.

Avvenne a quel tempo in Firenze che avendo Gemma Donati commesso a Leone Poggi (figlio di una sorella dell’Alighieri) di cercare in alcuni forzieri talune carte, ne vennero vedute molte a Leone Poggi, le quali ei riconobbe scritte da Dante. Dino Frescobaldi, poeta fiorentino cui quelle furono recate, avendone preso piú di una copia, confortò Gemma [p. 52 modifica]Donati d’inviarle al marito, si com’ella fece, in Lunigiana. Spento poi l’Alighieri, l’ammirazione pubblica pel suo libro adornò di maraviglie il racconto di questo fatto; ed aggiunse che le carte, le quali potevano contenere altri versi di Dante, contenessero appunto i primi sette canti dell’Inferno dettati giá innanzi l’esilio; che Dante le ricevè in casa Malaspina quando erasi del tutto allontanato da ogni pensiero di continuare il poema: e che nuovamente postosi al lavoro per le preghiere del marchese Malaspina, cominciò di tratto l’ottavo canto con le parole «Io dico seguitando». Siffatta narrazione adulava certamente in Firenze la vanitá cittadina; e allo stesso modo, con cui tante cittá contesero per l’onore che ivi Dante avesse composto alcune parti della Commedia, così parve bello che egli ne avesse disteso a casa i primi canti, e piú bello che alcuno dei fiorentini avesse in certa maniera salvato intero il poema. Perocché, se il Frescobaldi non avesse tenuto in pregio e fatto, secondo la narrazione, pervenire in Lunigiana i primi sette canti, né il marchese avrebbe pregato il poeta di proseguire, né Dante avrebbe punto voluto. Alla gloria di questa, non so se io mi dica, ristorazione del poema piú avidamente che altri aspirò Dino Perini, amico dell’Alighieri, e da esso celebrato nell’egloghe sotto il nome di Melibeo (Eglog. I, verso 4): il quale, tolto di mezzo Leone Poggi, affermava dopo la morte di Dante che la donna ordinò a lui Perini di cercar nei forzieri, e ch’egli fu il trovator delle carte. Io lascio all’egregio uomo il conte Giovanni Marchetti la cura di mostrare le assurditá della novella di Lunigiana, o che nelle carte trovate fossero i primi sette canti quali oggi si leggono: e non suppongo si neghittoso il poeta nei cinque piú fervidi anni della sua vita e del suo esilio che siasi privato del conforto d’un poema, donde sperava fama, e col quale reso formidabile ai nemici, opponevasi ardito ai colpi della fortuna.

Che se non inganna la congettura, l’Alighieri appunto in Lunigiana dettò i nove canti dell’Inferno, dal decimottavo fino al vigesimosesto. La recentissima rivoluzione di Bologna ben dovea muovere le ire dell’esule ghibellino: e però in quei [p. 53 modifica]canti rammentava la vergogna di Venedico Caccianemici, cui apponevasi di aver venduto per pregio di denaro ad Azzone VIII la bella Ghisola (Inf. XVIII, 56). E non contento ad un solo tacciava in generale i bolognesi di dissolutezza (Inf. XVIII, 59-62), e vi aggiungeva il rimprovero dell’avarizia (Inf. XVIII, 63), del quale rimprovero non si legge appo l’Alighieri o il piú frequente, o il piú odioso a suo senno. Senza fallo mirava egli al denaro che di fresco era venuto di Firenze a Bologna perché i bianchi fossero espulsi: accennando in sua mente, che ben potevano i bolognesi farsi per avarizia così disleali verso gli ospiti, se la moneta era da tanto appo uno dei principali della cittá, che il sospinse a turpe mercato della propria sorella. Né qui finirono le acerbitá contro Bologna. Recente ancor viveva in Romagna ed in Lombardia la fama dei due illustri frati godenti, Catalano dei Malavolti e Loderingo degli Andalò, giá rettori di Firenze: solenni documenti di pubbliche paci attestano la fiducia che nella loro fede incorrotta i popoli avevano posto, e come alla voce dei due bolognesi erano sovente cessate le discordie fra i piú violenti nemici. Nondimeno PAlighieri gli accusò di avere sconvolto Firenze al tempo della loro signoria (Inf. XXIII, 108): e, giudicando false le loro virtú, dannolli cogl’ipocriti alle tristi cappe di piombo. Da essi torcendo gli sguardi a Pistoia ed alle ultime sciagure ivi patite dai bianchi, piangeva il poeta l’acerbo fine che questi vi ebbero (Inf. XXIV, 143-151): e quel Moroello Malaspina di Manfredi, avverso alla parte di Franceschino ed imperante in Pistoia nel nome di Lucca, chiamava copertamente «il vapore di Val di Magra» (Inf. XXIV, 145). E non taceva di Lucca si nemica dei bianchi: e quei cittadini tutti riputavali barattieri facendo le viste di eccettuarne solo il massimo fra ogni altro Bonturo Dati (Inf. XXI, 41 e 42); cacciando Martin Bottaio, l’uno degli anziani di Lucca, nel lago di pece qual barattiere (Inf. XXI, 38). Di Firenze poi, perché di piú cara, peggior governo ei faceva: e quei cinque ladri, sublime poesia, ti mettea dinanzi agli occhi per mostrare quanto a sua posta nella cittá fosse colmo il sacco della nequizia (Inf. XXV). Meno austero [p. 54 modifica] ei cantava, rimemorando la sua Verona e i giorni passati presso Bartolommeo della Scala. Il territorio di Brescia, i confini del veronese, la fortezza di Peschiera, il lago di Garda, il Mincio che cade in Po, le paludi mantovane, la dominazione tolta dai Buonaccolsi ai conti di Casalodi sono argomento di versi bellissimi dell’Alighieri (Inf. XX, 61-96), ai quali consegue la piú bella descrizione dell’arsenale da lui osservato in Venezia (Inf. XXI, 7-15). E bei versi gli somministra del pari la veduta dei monti di Luni e della vicina Carrara in mezzo ai quali egli aggiravasi, ed ove l’etrusco Aronte abitò la spelonca fra i marmi (Inf. XX, 46-51). La vivezza delle descrizioni o delle invettive contenute nei nove canti allegati di sopra dimostra, non avere in essi l’Alighieri parlato di luoghi che non vide, né lungo tempo dopo gli avvenimenti che accenna: le sue ire contro i bolognesi e i fiorentini e i lucchesi convengono all’etá del maggiore trionfo della loro lega, e delle piú gravi sciagure dei bianchi. Né fuori di Lunigiana, ove i Malaspina gareggiarono coll’estinto Scaligero nell’onorario, il poeta ebbe opportunitá migliore di proseguire il poema e di consegnargli o le sue vendette politiche o le ricordanze dei suoi viaggi.