Del veltro allegorico di Dante/LI.
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LI. Si avvicinava intanto in Firenze la festa di san Giovanni Batista, ed era solenne in quel giorno di liberare i prigioni, massime gli esuli richiamati: venivano essi a gran pompa dietro il carro della zecca detto di san Giovanni con mitère in capo e con ceri nelle mani: offerti al santo e multati di alcuna somma ne andavano liberi affatto, cessate le loro condannagioni. Quei della Tosa, i Rinucci, e i Mannelli non isdegnarono di essere gli offerti dell’anno 1317 nel quale si compiva il terzo lustro dell’esilio di essi e di Dante Alighieri, compresi tutti nelle eccezioni inamabili di Baldo di Aguglione. L’ultima pace dei toscani col re Roberto allargò tali ordinamenti: e si vinse in Firenze di ammettere in qualunque tempo gli sbandeggiati, purché soggetti a pagare alquanto denaro ed offerti al santo giusta il costume dei maggiori. Avrebbe potuto il poeta essere di tal numero: e bene di ciò per lettere i suoi amici pregavanlo, fra i quali un religioso di lui congiunto, ed un comune loro nipote: soffrisse Dante l’ignominia, dicevano; ma cogli altri ritornasse a casa una volta. — Io soffrir l’ignominia?— rispose. — Cosi dunque dee terminar l’esilio trilustre di Dante Alighieri? Cessi Dio che un amatore della sapienza seguisse il codardo consiglio dei saccenti e degli infami. — Ecco in qual guisa l’Alighieri al religioso esponeva gli arditissimi pensamenti dell’indomabile ingegno, e come sapea rispondere alla vigliacca sentenza, con cui Carne Gabrielli dichiaravalo barattiere.