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Sergio Romano

storico, scrittore, giornalista e diplomatico italiano (1929-)

Sergio Romano (1929 – vivente), storico, scrittore e diplomatico italiano.

Sergio Romano (2008)

Citazioni di Sergio Romano

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  • Il baciapile esiste dappertutto, ma è un personaggio del cattolicesimo latino e in particolare italiano. È l'espressione di una religiosità cortigiana e sensuale che non riesce a immaginare Dio se non sotto la forma di preti, frati, monache, abiti talari, oggetti di culto. Nei tarocchi nazionali il baciapile è la metà di una carta in cui l'altra metà è rappresentata dal massone anticlericale.[1]
  • Mentre il bigotto parla con Dio, il baciapile parla con i preti. Mentre la devozione del primo è maniacale, ma rigorosa e spesso interiore, quella del secondo chiede di essere notata, apprezzata e ricompensata. Mentre il bigotto può condurre una vita isolata e schiva, il baciapile passa la sua alla ricerca di prelati di fronte ai quali piegare le ginocchia, di anelli da baciare e di reliquie da accarezzare.[2]
  • Lenin non credeva ai sentimenti nazionali. Era convinto che essi fossero una sorta di invenzione borghese e che si sarebbero dissolti nel nulla non appena la classe operaia avesse preso il potere.[3]
  • I bolscevichi non erano imperialisti. Ma quando si scontrarono con la resistenza delle vecchie nazionalità oppresse finirono per ritrovare nel fondo della loro memoria il vecchio autoritarismo militaresco della burocrazia imperiale. E la nuova ideologia comunista finì per divenire agli occhi delle minoranze nazionali una sorta di travestimento del vecchio imperialismo russo.[3]

La Stampa, 16 marzo 1989

  • La Repubblica democratica tedesca non vede ragione per modificare un sistema economico che ha dato risultati positivi. Se l'Urss - si ragiona nella Germania comunista - vuole cambiare, faccia pure. Ma non pretenda di imporre le sue riforme a chi non ne ha bisogno e ha dimostrato di saper governare con notevole efficienza l'economia socialista e programmata.
  • In Unione Sovietica e in altri Paesi socialisti la glasnost può essere controllata e misurata dall'alto perché il regime vigila attentamente sulle proprie frontiere conservando intatta la sua presa sul Paese e la sua capacità di razionare i rapporti esterni. Ma chi può prevedere con esattezza gli effetti della glasnost su una società che già subisce, grazie alla televisione e ai contatti familiari, l'impatto quotidiano dei «fratelli separati»? Se la Repubblica democratica tedesca dovette costruire un muro per regolare col contagocce il movimento delle persone attraverso la frontiera, che cosa accadrà il giorno in cui la glasnost darà libero spazio ai movimenti di opinione e permetterà ai tedeschi dell'Est di pretendere legalmente, a poche decine di metri dall'Occidente, i diritti a cui oggi aspirano segretamente?
  • La Germania orientale teme le riforme sovietiche [...] perché teme che esse finiscano per diluire la sua «originalità» socialista e la sua identità statale. Negli ultimi dieci anni essa ha pazientemente composto con ingredienti diversi - Lutero, il protestantesimo, l'eredità prussiana, le grandi tradizioni del socialismo tedesco, gli innegabili successi della sua economia - l'immagine di una Germania diversa la cui esistenza non dipende soltanto dagli eventi militari della seconda guerra mondiale e dalle vicissitudini della guerra fredda. La perestrojka rischia di trasformarla nuovamente in filiale tedesca dell'azienda moscovita, con la caduta di immagine, prestigio e originalità che non mancherebbe di derivarne.

La Stampa, 21 settembre 1989

  • Si va diffondendo da qualche tempo nell'opinione pubblica occidentale la sensazione che Gorbaciov sia divenuto col passare del tempo una sorta di Kerenskij e che egli galleggi sulle onde di un Paese in tempesta assai più di quanto non riesca a pilotare la nave del governo.
  • Per noi, che consideriamo le vicende sovietiche attraverso il filtro delle nostre esperienze democratiche, il problema dell'Urss è principalmente economico e nazionale. Per Gorbaciov, che lo considera in una prospettiva leninista, il problema è soprattutto politico.
  • Egli non ignora, ripeto, la gravità delle crisi ma sembra usarle per meglio realizzare lo scopo prioritario della sua strategia politica. Si vale del nazionalismo armeno per tenere a bada gli azeri e del nazionalismo russo per controllare i baltici. Usa gli argomenti della perestrojka contro i conservatori e gli argomenti della conservazione contro gli impazienti. Si vale della crisi economica per chiamare in causa le responsabilità degli oppositori in seno al partito e per meglio argomentare la necessità di un suo radicale rinnovamento. E continua nel frattempo a perseguire il suo obiettivo principale: sconfiggere gli avversari, eliminare i compagni infidi, estendere e consolidare il controllo del partito.
  • Le crisi, finché possono essere usate contro i suoi avversari, non sembrano preoccuparlo eccessivamente e non lo distraggono dal suo obiettivo prioritario. Considerato in questa prospettiva egli su muove coerentemente nell'ambito di una tradizione politica elaborata da Lenin e consolidata da Stalin. E come Stalin aveva notevolmente ridotto il potere del partito per meglio affermare il proprio, così Gorbaciov sembra pronto a sconvolgere il partito pur di farne lo strumento della sua politica.
  • Vi fu un periodo, più di quarant'anni fa, quando il nome di Viktor Andreevic Kravchenko era una scintilla. Bastava pronunciarlo, soprattutto in Italia e in Francia, perché l'atmosfera d'una conversazione si caricasse di elettricità e lo spazio d'una riunione venisse attraversato da micidiali saette intellettuali. Ho scelto la libertà, il libro che egli aveva scritto negli Stati Uniti fra il 1944 e il 1945, apparve in Italia presso Longanesi nel marzo del 1948, durante una delle più aspre campagne elettorali che si siano mai combattute nel nostro Paese[4]. Divenne subito un'arma e un bersaglio.[5]

La Stampa, 8 settembre 1991

  • [Su Dmitrij Vasilev] Ai suoi seguaci racconta con occhi guizzanti che la Russia poggia su tre pilastri: il trono, l'altare e il popolo; che la sua anima è stata confiscata e imprigionata dal potere bolscevico, dai complotti dell'Occidente, dai tentacoli dell'ebraismo internazionale; che lo zar tornerà un giorno al popolo russo come un messia e risanerà le sue ferite.
  • [Su Dmitrij Vasilev] A chi gli ricorda che l'organizzazione è stata recentemente abbandonata da una parte dei suoi membri, allude sorridendo alle manovre del Kgb. Ma i suoi avversari sostengono che fu proprio il Kgb negli scorsi anni il suo maggior finanziatore.
  • [Su Dmitrij Vasilev] Capisco, vedendolo, che i baffi spioventi, i capelli lunghi e slavati, gli occhi guizzanti e il colore sgargiante dei vestiti sono gli ingredienti del personaggio che egli ama recitare: quello del boiaro in una grande opera russa del secolo scorso.
  • Avevo già chiesto ai suoi collaboratori quale fosse stato l'atteggiamento di Pamjat nei giorni del colpo di Stato. Mi avevano spiegato che comunismo e democrazia sono nipoti di Karl Marx e altrettanto spregevoli.
  • Quante persone, dopo avere atteso per settanta'anni il miracolo di Lenin, attendono oggi il miracolo di Vasilev? Pochissime, probabilmente. Ma l'epoca del comunismo defunto è propizia ai profeti, ai tribuni, ai santoni e ai piccoli leader carismatici. Vasilev, occorre ammetterlo, è fra quelli che recitano meglio la parte.

David Irving non è uno studioso. È soltanto un vecchio morbo che resiste tenacemente a qualsiasi documentazione storica.[6]

  • [Su Giorgio La Malfa nel periodo di Mani pulite] Il segretario repubblicano ha due meriti che gli permetteranno probabilmente , prima o dopo, di "tornare in gara": ha denunciato, tra i primi, i vizi del sistema politico, e si è immediatamente dimesso appena è stato coinvolto nelle indagini.[7]
  • Berlusconi non perde occasione per spiegare al Paese che l'ideologia del suo movimento è in realtà l'ideologia della sua impresa.[8]
  • Berlusconi non può scendere in campo contro lo statalismo assistenzialista e dimenticare che la sua azienda è ancora un oligopolio costruito in combutta con il vecchio regime […]. Si presenta al paese come uomo di regole nuove e principi trasparenti ma l'uso che ha lasciato fare in questi giorni dei suoi canali televisivi tradisce le regole e i principi e rappresenta un rischio per la democrazia e per la correttezza della lotta elettorale.[9]
  • Toccò a Roosevelt, Churchill, Stalin. Doveva toccare anche a De Gasperi. Mentre gli storici inglesi continuano a scalpellare il monumento di Churchill e il generale Volkogonov non smette di rileggere criticamente la vita dei fondatori dello stato sovietico, Nico Perrone, docente di storia americana e collaboratore del manifesto, pubblica presso l'editore Sellerio di Palermo un libro fortemente "revisionista" su De Gasperi e l'America. [...] Perrone ci precipita all'indietro negli anni in cui De Gasperi era "lacchè degli Stati Uniti", Scelba era il suo "ministro della polizia", Saragat rompeva l'unità socialista con i soldi degli americani e Pacciardi cacciava i comunisti dagli opifici militari per obbedire agli ordini della CIA. Le tesi del libro sono sostanzialmente queste. Non è vero che gli americani abbiano assistito l'Italia per aiutarla a consolidare il suo regime democratico: lo hanno fatto per creare nel paese, con la collaborazione dei loro clienti, un duro fronte anticomunista. [...] Perrone è uno storico, e per convincere il lettore del buon fondamento delle sue convinzioni ha fatto lunghe ricerche negli archivi italiani e degli Stati Uniti, ha confrontato e integrato i documenti americani con quelli che rimangono negli archivi personali dei maggiori uomini politici del tempo, da Truman a Acheson.[10]

Corriere della Sera, 15 dicembre 2003

  • Esiste una biografia ufficiale di Saddam Hussein in diciannove volumi. Esiste un grande documentario sulla sua vita (I lunghi giorni, sei ore di proiezione), prodotto con la supervisione di un regista britannico, Terence Young, noto tra l'altro per avere diretto uno dei primi film di Sean Connery nei panni di James Bond (Dalla Russia con amore). Ed esistono infine migliaia di inni, odi e poesiole infantili in onore del leader che la televisione irachena mandava in onda ogni sera. La biografia, il film e queste «spontanee» manifestazioni di cultura popolare sono l'equivalente letterario e cinematografico delle grandi statue leniniste e degli enormi ritratti con cui il raìs iracheno ha celebrato il culto della propria persona. In queste opere il protagonista è condottiero della nazione, principe illuminato e magnanimo, padre del popolo, difensore della patria, castigatore dei suoi nemici, paladino dell'Arabia, discendente di Maometto. Sul rovescio della medaglia vi è un altro Saddam composto con le informazioni fornite dagli esuli, il ricordo dei parenti delle vittime e i rapporti dei servizi segreti occidentali: il sanguinoso tiranno, il leader crudele, il massacratore dei curdi e degli sciiti, il satrapo capriccioso e imprevedibile, l'invasore del Kuwait. Gli storici, naturalmente, non si accontenteranno di queste opposte semplificazioni. Il contemporaneo, dal canto suo, può soltanto arricchire il quadro con qualche dettaglio raccontando al lettore che vi furono altri Saddam Hussein e che il protagonista del grande dramma iracheno fu protagonista di parecchie vite.
  • Kassem era un nazionalista, nello stile del colonnello Nasser che aveva conquistato il potere al Cairo pochi anni prima. E altrettanto nazionalista era un suo compagno di congiura, il colonnello Aref, che cinque anni dopo uccise Kassem e ne prese il posto.
  • [Su Saddam Hussein] Voleva fare del partito una forza di quadri e di militanti devoti e disciplinati, nello stile dei partiti fascisti e comunisti d'Europa.
  • Nella filosofia totalitaria e nazional-socialista del Baath, il partito è il cuore del Paese, la mente della nazione, l'anima dello Stato e il centro vitale delle sue funzioni.
  • [Su Saddam Hussein] Il suo maggiore talento era una straordinaria capacità di ingannare.
  • Mentre purgava il partito, rafforzava i servizi di sicurezza, schiacciava i dissidenti e promuoveva i «paesani» di Tikrit alle posizioni più ambite o remunerative, Saddam recitava un'altra parte in commedia: quella del modernizzatore illuminato.
  • [Sulla Guerra Iran-Iraq] Benché i risultati del conflitto fossero modesti, Saddam ne uscì politicamente rafforzato e dovette credere che l'Iraq fosse ormai una grande potenza militare.
  • Nel corso della sua esistenza Saddam aveva tradito e raggirato i compagni di partito, i potenziali concorrenti, i comunisti, i curdi, gli sciiti e gli iraniani. Ma fu lui stesso vittima di almeno tre tradimenti.
  • [Su Saddam Hussein] Separato dal mondo, isolato fra gli splendidi marmi dei palazzi presidenziali, abituato ad avere incontri durante i quali i suoi interlocutori potevano soltanto ascoltare, il raìs elaborò teorie che nessuno aveva il diritto di contraddire. Era convinto che gli arabi fossero un popolo superiore. Era certo che gli americani soffrissero ancora della sindrome del Vietnam e che non avrebbero sopportato la vista del sangue sparso dai loro soldati. Era sicuro che il suo popolo si sarebbe sacrificato per la causa nazionale.
  • I curdi hanno presenze importanti in quattro Stati medio-orientali — Iran, Iraq, Siria, Turchia — e la loro partecipazione militare alla guerra siriana ha confermato l'esistenza di una orgogliosa identità nazionale, distinta da quella degli altri popoli che vivono nella regione. Non è tutto. Quello che sta accadendo nel Medio Oriente è il risultato di una crisi che investe quasi tutti gli Stati arabi nati dalla morte dell'Impero Ottomano e che avrà per effetto, probabilmente, la modifica di parecchie frontiere. Non è sorprendente che, in questa prospettiva, i curdi abbiano deciso di chiedere nuovamente la creazione di una grande casa comune per tutte le famiglie separate del loro popolo. Ma anche in questo caso vi sono protagonisti della vita politica internazionale che hanno il diritto di formulare riserve e prospettare pericoli. In una regione dove il ricorso alle armi è sempre più frequente, la creazione di uno Stato curdo darebbe probabilmente il colpo di grazia a ciò che ancora sopravvive del vecchio ordine e avrebbe per effetto nuove guerre.[11]

Da Gorizia: i tre volti di una piccola grande città

Corriere della Sera, 7 ottobre 2005

  • [A Quirino Principe] Caro Principe, negli annali della letteratura nazionalista sulla Grande guerra, Gorizia è stata a lungo la «città santa» per cui furono combattute le undici battaglie dell'Isonzo.
  • Negli annali della guerra fredda, infine, Gorizia è stata una piccola Berlino, la città deturpata da un muro, divisa da una frontiera e dominata da un colle su cui il Minculpop jugoslavo aveva scritto con le pietre a caratteri cubitali, perché tutti dal basso potessero leggere, «Nas Tito», il nostro Tito.
  • Nelle mie visite a Gorizia ho sempre avuto l'impressione che la città, nonostante i suoi monumenti e le sue lapidi, portasse il peso di questa immagine [«Nas Tito»] con una certa noncuranza. A costo di ferire qualche suscettibilità, le dirò, caro Principe, che non può essere né interamente italiana né interamente slava né interamente austriaca.
  • Per i tedeschi che scendevano verso il Sud, Gorizia era la prima città in cui l'aria, i portici delle vie, i sapori della cucina e il colore del vino avessero un «gusto» italiano. Per gli italiani che andavano a Vienna, a Salisburgo, a Monaco e a Dresda, era la prima città in cui le locande fossero pulite, le ostesse accoglienti, le kellerine servizievoli e graziose. Per gli sloveni del contado il Prato, come si chiamava nella loro lingua la piazza più grande, era il mercato dove si scambiavano merci e notizie. Oggi Gorizia è molto più di una locanda per viaggiatori di passaggio.
  • Per molti aspetti Moham­med Reza appartiene di diritto alla piccola cerchia di quegli uomini di Stato che cercarono di rinnovare secondo modelli occidentali i costumi politici e civili delle società musulmane: Mohammed Ali, fondatore del­l'Egitto moderno, il padre Reza, fondatore dell'ultima dinastia iraniana, il grande Kemal Ata­türk, creatore della Turchia moderna, e per certi aspetti persino Saddam Hussein, dittatore dell'Iraq sino alla guerra americana del 2003.
    Ma non aveva, a differenza del padre e di Kemal, la tempra del combattente, il rigore strategico, lo stile puritano del potere. Amava lo sfarzo della corte, le uniformi sgargianti, le villeggiature a Saint Moritz e le stravaganti feste imperiali con cui celebrò nel 1971 l'improbabile discendenza dello Stato iraniano da quello di Dario e di Ciro.[12]
  • Nel linguaggio corrente la parola «fascista» ha perduto il suo senso originario e significa semplicemente violento, intollerante, se non addirittura mascalzone. Molti di coloro che se ne servono hanno del fascismo un'idea vaga e sanno soltanto che è un insulto, quindi buono per aggredire verbalmente un uomo politico.[13]
  • È certamente vero che i regimi nazionali e sociali, creati in alcuni Paesi europei negli anni Venti e Trenta, parvero a molti leader arabi e musulmani, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, particolarmente adatti alle loro esigenze. L'autorità indiscussa del leader, il partito unico, il ruolo delle forze armate e della burocrazia, l'uso spregiudicato della polizia e dei servizi segreti, il controllo della società e della stampa parvero ingredienti utili per Stati nascenti dove le masse erano in buona parte analfabete e l'albero della democrazia parlamentare stentava a crescere. Ma non tutti i regimi autoritari possono considerarsi fascisti o comunisti. Il più simile al fascismo, tra i gruppi politici sorti in Medio Oriente durante il Novecento, fu un movimento creato in Siria nel 1940. Il suo fondatore, Michel Aflaq, era siriano e cristiano. Aveva studiato alla Sorbona negli anni Trenta, aveva assistito alle battaglie politiche fra destra e sinistra nelle strade di Parigi, aveva inghiottito un inebriante cocktail di letteratura politica europea da Mazzini a Lenin, era anticolonialista, panarabista, fiero del grande passato arabo, ma risolutamente laico e socialista.[13]
  • L'Iraq fu quindi il più fascista dei regimi medio-orientali degli ultimi decenni. Saddam si servì del partito unico per militarizzare la società, instaurò un culto del leader che era modellato su quello del Duce e del Führer, mise la burocrazia in uniforme, affidò la sua fama alla costruzione di grandi opere pubbliche, fu al tempo stesso nazionalista e, a modo suo, socialista. Fu questo il fascismo del mondo arabo. Mi sarebbe molto più difficile, invece, trovare tracce di fascismo nei movimenti politici di ispirazione religiosa, dalla Fratellanza musulmana a quelli che sono nati dopo la rivoluzione iraniana, l'invasione israeliana del Libano nel 1982 e la prima Guerra del Golfo nel 1991. Fra il Baath e il fanatismo religioso, anche quando si alleano contro un nemico comune, vi è un incolmabile fossato. A differenza dei suoi predecessori, Bush sembra avere dimenticato che il maggiore nemico dell'Iran di Khomeini fu l'Iraq di Saddam Hussein, e che nella lunga guerra fra i due Paesi, dal 1980 al 1988, gli Stati Uniti furono dalla parte dei fascisti contro gli islamisti.[13]

Corriere della Sera, 30 novembre 2007

  • [Sul negazionismo turco del genocidio armeno] Credo che le ragioni siano caratteriali e storiche. Caratteriali, perché questo popolo è fiero, orgoglioso e non ancora afflitto da quella «liturgia del perdono » che si è propagata negli ultimi decenni attraverso l'Occidente. Storiche, perché le accuse non terrebbero conto del modo in cui le rivendicazioni armene, prima della Grande guerra, furono percepite dallo Stato turco. Durante la seconda metà dell'Ottocento il declino dell'impero fu fortemente accelerato da eventi che obbedivano a una stessa dinamica. Scoppiavano rivolte cristiane nel Levante e nei Balcani che i turchi cercavano di reprimere con la loro abituale durezza. Ma la repressione, grazie alla popolarità dei movimenti nazionali nell'Europa di allora, suscitava la reazione delle grandi potenze decise a intervenire per proteggere i loro correligionari, ma anche per strappare all'Impero ottomano qualche lembo di territorio.
  • Kemal Atatürk non fu personalmente coinvolto nella vicenda, ma i «giovani turchi», a cui egli apparteneva, avevano importanti responsabilità di governo. E anche questo spiega perché la Turchia d'oggi non voglia ammettere le colpe di ieri.
  • La parola «genocidio» ha subito una sorta d'inflazione e che non può essere applicata ai massacri armeni del 1915. Il governo turco volle colpire duramente una comunità nazionale, ma non si propose, come Hitler, di sterminare un popolo e di inseguire ogni suo membro dovunque avesse cercato di nascondersi.
  • Mentre l'Europa e gli Stati Uniti celebrano con grande soddisfazione il ventesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, sarebbe giusto ricordare che vi è almeno un Paese dell'Europa centro-occidentale in cui quell'entusiasmante evento suscita riflessioni malinconiche e molti esami di coscienza. Il Paese è la Jugoslavia. Qui il crollo del comunismo ebbe l'effetto di sgretolare il cemento ideologico con cui Tito aveva costruito, dopo la fine della seconda guerra mondiale, uno Stato apparentemente federale ma in realtà fortemente centralizzato. Tornarono prepotentemente alla superficie le vecchie identità nazional-religiose dei suoi cittadini e il Paese fu tormentato da una guerra di sette anni in cui persero la vita o la casa alcune centinaia di migliaia di persone.[14]
  • Milosevic e Karadzic sono molto diversi. Mentre il primo era intelligente, scaltro e capace di calcoli raffinati, anche se spesso destinati a produrre effetti disastrosi, il secondo è un personaggio bizzarro e stravagante.[14]
  • La battaglia contro il surriscaldamento è in ultima analisi una battaglia tecnologica e sarà vinta quando la vendita e l'acquisto di nuovi impianti diventeranno un affare per il venditore e il compratore. In altre parole l'ambientalismo avrà la meglio quando sarà un business. I segnali esistono e mi auguro che l'Italia sia pronta a coglierli.[15]
  • Se la guerra di Libia come sembra è terminata, sappiamo chi l'ha perduta: il Colonnello, il suo clan familiare, i profittatori del regime, le tribù alleate, gli amici internazionali che hanno scommesso sulla sua vittoria. Non sappiamo invece chi l'ha vinta. I ribelli hanno combattuto coraggiosamente, ma sono una forza raffazzonata composta all'inizio da qualche nucleo islamista, senussiti della Cirenaica, nostalgici del regno di Idris, una pattuglia democratica. Le loro file si sono ingrossate quando l'intervento della Nato è sembrato garantire una vittoria sicura. Ma il fatto che molti notabili siano stati alla finestra per parecchi mesi e abbiano cambiato campo soltanto nelle ultime settimane dimostra che il risultato della partita era incerto e che nella migliore delle ipotesi il Paese sarà governato da una coalizione di opportunisti post-gheddafiani, lungamente complici di colui che ha dominato la Libia per 42 anni.[16]
  • Non commettiamo l'errore di pensare che il Colonnello sia stato sempre impopolare. Le sortite nazionaliste e anti-occidentali piacevano a una parte della società libica e dell'opinione pubblica africana. I laici e i musulmani moderati approvavano il rigore con cui aveva combattuto e spento i focolai dell'islamismo radicale. Le straordinarie risorse naturali del Paese hanno arricchito il clan familiare del leader e creato una larga cerchia di profittatori, ma hanno anche consentito la nascita di nuovi ceti sociali, soprattutto negli apparati della pubblica amministrazione e dell'economia statale.[17]
  • Un processo a Gheddafi sarebbe una pietra miliare nella lunga strada verso la giustizia internazionale.[17]
  • Quanti uomini politici, soprattutto europei, verrebbero convocati all'Aja per rendere conto dei loro rapporti con il leader libico? La fine del regime di Gheddafi è una buona notizia. Ma se vogliamo che sia utile al futuro della Libia e più generalmente a quello dei Paesi dell'Africa del Nord, nessuna di queste domande può essere ignorata o sottovalutata. Non basta salutare la fine del tiranno, la vittoria del popolo, il trionfo della democrazia.[17]
  • Quando invase l'Iraq, nel 2003, George W. Bush credette che gli americani sarebbero stati accolti come liberatori e annunciò la fine della guerra, poche settimane dopo, di fronte a una scritta che proclamava al mondo: «Missione compiuta». Il presidente riteneva che il conflitto fosse giustificato dai legami di Saddam Hussein con il terrorismo islamico e dall'esistenza di armi chimiche e nucleari, di cui il dittatore avrebbe potuto servirsi contro il «mondo libero». Nessuna di queste affermazioni era vera. Non erano veri i legami con Al Qaeda, non esistevano armi di distruzione di massa, gli americani erano «liberatori» soltanto per una parte del Paese e la guerra, quando finalmente Bush uscì dalla Casa Bianca, non era finita.[18]
  • [Sull'Iraq] Il Paese è un artefatto della politica internazionale, una invenzione di Churchill realizzata per le esigenze petrolifere della Royal Navy grazie a un assemblaggio di gruppi etnici e religiosi - arabi sunniti, arabi sciiti, curdi - in cui soltanto i primi, purché al vertice del potere, erano veramente interessati alla creazione di uno Stato unitario. Gli sciiti hanno un forte rapporto religioso con l'Iran e hanno spesso detestato i loro concittadini sunniti più di quanto temessero gli iraniani. I curdi hanno fratelli in Turchia, in Iran, in Siria, e non hanno mai smesso di sognare il grande Kurdistan che i vincitori del 1918 avevano lasciato intravedere alla fine della Grande guerra. Qualche intelligente diplomatico americano ha prospettato l'ipotesi di una federazione, ma non è facile tracciare frontiere là dove esistono grandi risorse naturali e ogni divisione rischia di farsi a spese di qualcuno. Oggi i curdi sono pressoché sovrani nelle loro terre e gli sciiti controllano buona parte del potere a Bagdad. Ma i sunniti si considerano «espropriati» e le loro formazioni più radicali non hanno mai smesso di combattere, se necessario, persino a fianco dei terroristi di Al Qaeda.[18]

Corriere della Sera, 21 ottobre 2011

  • Il colonnello Muammar Gheddafi non fu soltanto il satrapo orientale, vestito di una uniforme operistica che si pavoneggiava a Roma ostentando il ritratto di Omar El Mukhtar, martire della resistenza anti-italiana, sul bavero della giacca. Prima di seppellirlo conviene ricordare che il tiranno era pur sempre un leader nazionale e che perseguì progetti diversi, quasi sempre folli, ma non privi di una loro perversa genialità.
  • La Francia lo detestava per le sue interferenze nel Ciad e per l'attentato contro un aereo francese, la Gran Bretagna per l'uccisione di una poliziotta colpita da uno sgherro libico di fronte all'ambasciata di Libia a Londra, gli Stati Uniti per il contenzioso sul golfo della Sirte e l'attentato in una discoteca di Berlino, la gran Bretagna e gli Stati Uniti insieme per l'attentato contro un aereo della Pan American nel cielo scozzese di Lockerbie, i leader arabi per le sue intollerabili irruzioni negli affari interni dei loro Paesi, la Fratellanza musulmana per il modo in cui aveva perseguito, incarcerato e ucciso gli islamisti libici, la Svizzera per le misure di rappresaglia decise dal colonnello dopo l'arresto di Hannibal in un albergo di Ginevra, la Bulgaria per la lunga detenzione di alcune infermiere accusate di un reato inesistente. Aveva anche qualche amico, tra cui alcuni Stati africani e quei Paesi che, come il Venezuela di Hugo Chavez, lo consideravano una provvidenziale spina nel fianco dell'Occidente imperialista.
  • La Libia era una creazione artificiale del colonialismo italiano, uno Stato composto da due territori (la Tripolitania e la Cirenaica) che avevano avuto storie diverse, popolato da tribù che avevano interessi contrastanti, abitato da circa due milioni di persone (tanti erano i libici quando Gheddafi conquistò il potere), sparse su un enorme territorio prevalentemente desertico. Demograficamente povera, economicamente sottosviluppata e priva di un forte passato nazionale, la Libia di Gheddafi era tuttavia, potenzialmente, un paese ricco, e tale sarebbe diventato a mano a mano che le grandi compagnie petrolifere scoprivano nuovi giacimenti di petrolio e di gas. A differenza di altri leader nazionali dei paesi emergenti, il colonnello ebbe quindi sempre a sua disposizione i mezzi finanziari necessari al perseguimento dei suoi obiettivi; ed è probabile che tanta abbondanza lo abbia sollecitato a concepire sogni smisurati e stravaganti. La storia della sua politica è anche la storia del suo denaro e del modo in cui venne impiegato.
  • Se avesse potuto difendersi in un'aula di tribunale, Gheddafi avrebbe forse chiamato sul banco dei testimoni molti soci d'affari. Ma della sua umiliante fine politica e umana, se avesse conservato un briciolo di intelligenza, avrebbe potuto rimproverare soltanto se stesso.
  • Non posso continuare a raccontare il libro di Gombrich, cara signora, anche perché non saprei rendere la freschezza, l'immaginazione e l'ironia con cui l'autore racconta la storia del mondo sino alla fine della Seconda guerra mondiale passando attraverso le diverse fasi dell'umanità.[19]
  • Parlare con l'Iran è necessario per almeno tre ragioni. È una potenza regionale, ha un capitale petrolifero che può giovare all'intera regione ed è la guida autorevole di una minoranza musulmana, gli sciiti, che attraversa il Golfo, è maggioranza in Iraq, si estende sino alla Siria e soprattutto al Libano. Non riusciremo a spegnere i fuochi della Siria senza la collaborazione dell'Iran. E non vi saranno prospettive di pace in Afghanistan se l'Iran non sarà chiamato a fare la sua parte.[20]
  • [Sulla Primavera araba] Per una serie di circostanze, che lascio volentieri agli storici e ai sociologi, quello a cui stiamo assistendo, dopo la rivolta tunisina del dicembre 2010, è il fallimento dello Stato arabo-musulmano. È fallito lo Stato dei nuovi sultani: l'Egitto di Hosni Mubarak, la Tunisia di Zine El Abidine Ben Ali, la Libia del colonnello Gheddafi. È fallito il nazionalsocialismo iracheno di Saddam Hussein e quello siriano della famiglia Assad. È fallita la democrazia multireligiosa e multiculturale del Libano. È fallita la Lega Araba. E potrebbero fallire, prima o dopo, gli Stati patrimoniali del Golfo. Sopravvivono paradossalmente le monarchie, da quella di Mohammed VI in Marocco a quella di Abdullah II in Giordania, ma il rischio del contagio, soprattutto nella seconda, è altissimo. In alcuni casi, Siria e Libia, la crisi è diventata rapidamente guerra civile. In altri casi, Egitto e Libano, la guerra civile potrebbe scoppiare da un momento all'altro.[21]
  • Non è interamente colpa di Obama se le primavere arabe non hanno schiuso ai loro Paesi le porte della democrazia, se il partito americano della sicurezza gli ha impedito la chiusura di Guantánamo, se gli ayatollah iraniani non hanno accolto la sua offerta, se l'Afghanistan è sempre per metà talebano, se i sunniti iracheni contestano ai loro fratelli sciiti il diritto di governare il Paese, se il primo ministro israeliano ha preferito puntare sulla vittoria dei repubblicani nelle ultime elezioni presidenziali americane, se la Russia di Putin è più poliziesca e repressiva di quella di Medvedev. Obama ha avuto la sventura di entrare alla Casa Bianca nel momento in cui era già iniziato il lento declino dell'impero americano, e deve ora convivere con una società politica che reagisce a questa prospettiva troppo nervosamente.[22]
  • È stato un errore combattere Gheddafi senza accettare le responsabilità politiche dell'intervento. È stato un errore chiedere all'ambasciatore americano in Siria di prendere posizioni inutilmente provocatorie contro il regime di Bashar Al Assad. E non ha giovato alla politica americana oscillare ambiguamente in Egitto fra i militari e la Fratellanza musulmana.[22]
  • I talebani non hanno alcuna intenzione di negoziare con una potenza che ha già, comunque, deciso di ritirare le proprie truppe nel 2014. L'uccisione di Osama bin Laden nel suo fortilizio pachistano è parsa uno straordinario successo della presidenza Obama (la vendetta è sempre, per un certo periodo, consolatoria) ma ha peggiorato i rapporti degli Stati Uniti con il Pakistan. In Iraq si muore, grazie alle bombe sunnite, molto più di quanto si morisse all'epoca di Saddam Hussein. In Libia, infine, Obama ha avuto il merito di comprendere prima dei suoi alleati i rischi di una operazione che era divenuta molto più lunga del previsto. Ma del caos in cui il Paese è precipitato dopo la vittoria dei ribelli Obama non è meno responsabile di Nicolas Sarkozy e David Cameron. È davvero sorprendente che dopo tre guerre non vinte, come la buona educazione internazionale preferisce chiamare quelle perdute, gli americani e le opinioni pubbliche occidentali non vogliano essere trascinati nella quarta? Resta da capire, a questo punto, perché un uomo politico accorto e razionale come Barack Obama dovrebbe a tutti i costi prendere una iniziativa militare contro la Siria.[23]
  • [Sullo Stato Islamico] Per vincere abbiamo un'arma che potrebbe rivelarsi efficace: i musulmani europei. Se sapremo coinvolgerli, saranno i nostri migliori alleati. Ne esistono le condizioni. Come quella creata durante la prima guerra del Golfo, la coalizione contro l'Isis non potrà mai essere definita una «crociata» composta da Paesi cristiani. È una ragionevole alleanza fra Paesi di tradizione cristiana e Paesi di tradizione musulmana. Mi piacerebbe che gli storici, un giorno, parlassero della guerra contro l'Isis come dell'evento che maggiormente avvicinò il mondo della cristianità e quello dell'Islam.[24]
  • Julius Evola ebbe due vite. Nel sua prima vita fu pittore, futurista, dadaista (dal nome di un movimento artistico e letterario nato a Zurigo nel 1916) e amico del suo fondatore, Tristan Tzara.
    I quadri dipinti in quegli anni furono notati e ammirati in alcune delle grandi esposizioni europee del tempo. Ma nel 1921 attraversò una difficile crisi personale, fu attratto dagli studi filosofici e dedicò il resto della sua vita alla elaborazione di un idealismo magico in cui è visibile l'influenza di Nietzsche, del pensiero razziale di Gobineau, della filosofia indiana e di altri culti esoterici dell'Asia.
    Aderì intellettualmente al fascismo e al nazismo perché sostenne di vedere in quei movimenti la nascita di un neo paganesimo e l'avvento di un'era eroica dominata da razze che avrebbero difeso i loro popoli dai flagelli della modernità. Uno dei suoi libri più importanti è, per l'appunto, Rivolta contro il mondo moderno. Era a Vienna nell'aprile del 1945 quando fu ferito durante un bombardamento alleato e perdette l'uso delle gambe.
    Quando rientrò in patria, nel 1948, fu accusato di avere collaborato alla creazione di una organizzazione fascista rivoluzionaria e venne processato; ma fu assolto ed ebbe da allora nella società culturale italiana una posizione simile per certi aspetti a quella di Céline, lo scrittore anti-semita di cui venivano riconosciute, tuttavia, le grandi qualità letterarie.[25]
  • Commetteremmo un errore, a mio avviso, se pensassimo di essere il principale bersaglio dell'Islam jihadista. La vera guerra, oggi, è quella che si combatte all'interno del mondo musulmano. È la guerra tra una setta fanatica e regimi politici spesso incerti, titubanti, ma tutti più o meno collegati, per ragioni di affinità o convenienza, con l'Europa, gli Stati Uniti e la Russia. È una guerra civile senza quartiere dove le vittime musulmane sono incomparabilmente più numerose di quelle provocate dagli attentati terroristici nelle nostre città. Ed è ulteriormente complicata dall'antico odio fra le due famiglie religiose dell'Islam: sunniti e sciiti.[26]
  • Il presidente egiziano Al Sisi, il presidente siriano Al Assad, il presidente russo Putin e il presidente iraniano Rouhani non sono diavoli. Sono alla testa di regimi che noi consideriamo carenti di democrazia, polizieschi e repressivi. Ma conoscono l'Islam meglio di noi, hanno già fatto in passato dolorose esperienze (abbiamo dimenticato ciò che accadde nella scuola di Beslan, nell'Ossezia del nord?) e hanno buone ragioni per battersi affinché il loro Paese non venga continuamente insidiato dall'estremismo sunnita o sia destinato a divenire una provincia del Califfato. Se qualche Paese occidentale fosse disposto a mettere truppe sul terreno potremmo forse fare a meno della loro collaborazione. Ma da quando gli Stati Uniti hanno eliminato questa opzione non abbiamo altra scelta fuor che quella di sostenere con tutti i mezzi di cui disponiamo quelli che sul terreno già ci sono.[26]
  • Washington non vuole Assad, non vuole l'Isis e non vuole Putin nel Mediterraneo. Un tale groviglio di desideri incompatibili sarebbe più facilmente sostenibile se il presidente Obama fosse disposto a impegnare le forze americane sul terreno. Ma esclude anche questa possibilità, forse perché non vuole concludere il suo mandato con una operazione che ricorderebbe, anche se in circostanze alquanto diverse, quella del suo predecessore alla Casa Bianca. Ha un altro piano?[27]
  • Il presidente siriano si è sicuramente screditato ma non è una persona inutilizzabile.[28]
  • Gli americani non si rendono conto che Assad non è solo un despota ma anche il leader di un blocco politico e sociale. Non dimentichiamo poi che esiste la simpatia dei cristiani, della media borghesia. Fino ad ora hanno parlato poco per non esporsi alle rappresaglie dell'una e dell'altra parte, ma la loro posizione è chiara.[28]
  • L'Isis è un movimento sunnita e noi sappiamo che in questi ultimi anni la destabilizzazione del Medio Oriente ha provocato il risveglio di un vecchio conflitto religioso tra le due anime dell'Islam, i sunniti e gli sciiti. Non c'è dubbio che questa vecchia ruggine fra le due maggiori componenti dell'Islam ha in qualche modo contribuito a rendere il conflitto ancora più aspro.
    Il principale obiettivo dell'Islam sono i Paesi occidentali ma non escludo effettivamente che questa sorta di guerra civile e religiosa tra sunniti e sciiti esplosa nuovamente sia diventata importante, soprattutto per i grandi Paesi come l'Arabia Saudita e l'Iran, vale a dire i Paesi che sono la maggiore espressione delle due grandi anime dell'Islam.[29]
  • Credo che non dovremmo più parlare di "primavera araba", piuttosto constatare che quei movimenti, quelle piazze piene di gente che protestava contro il regime di Ben Ali in Tunisia e contro quello di Mubarak in Egitto erano il segno di una protesta reale, non c'è dubbio che c'era una grande insoddisfazione, soprattutto generazionale. Nuove generazioni che avevano in qualche modo ambizioni suscitate anche dal fatto che potevano, a differenza dei loro padri e dei loro nonni, vedere meglio grazie alle nuove tecnologie quello che stava accadendo altrove, quello che la modernità rappresentava in altri Paesi.
    Però in quelle piazze non c'erano movimenti o partiti politici quindi sono certamente riusciti a cacciare Ben Ali e far dimettere Mubarak ma non sono stati in grado poi di istituire un regime nuovo, creare nuove stabilità basate su progetti organici e quindi i paesi sono in modo diverso precipitati nel caos.[29]
  • Il regime di Bashar al-Assad, come quello di Saddam Hussein, era un regime laico; entrambi avevano cercato di fondare la loro esistenza su principi desunti dall'Occidente. Il partito al potere, sia in Iraq che in Siria, era il partito Ba'th, nazionalista e socialista, con una forte componente laica. Saddam Hussein non ha mai avuto rapporti con Al-Qaeda, anche se questa era l'accusa da parte degli Stati Uniti, l'argomento o il pretesto per cui hanno deciso di fargli la guerra.
    Paradossalmente era più simile a uno stato europeo quello di Bashar al-Assad, ma anche quello di Saddam Hussein insieme all'Egitto, di quasi tutti i Paesi arabo-musulmani.[29]

Ilfoglio.it, 5 novembre 2015

  • Erdogan presenta inconvenienti, ma garantisce la stabilità del governo turco. Non sempre la stabilità asseconderà i nostri gusti ma è un valore, è un elemento di cui non si può fare a meno.
  • Il modello turco è certamente molto cambiato perché Erdogan non è più l'uomo di 7-8 anni fa che in qualche modo cercava di garantire la democrazia nel suo paese. Ma non è accaduta la stessa cosa in Russia o in Egitto?
  • In politica interna, Erdogan ha una priorità a cui non rinuncerà, e questa è l'unità e indivisibilità della Turchia. Sappiamo che il maggiore rischio che il paese ha e ha sempre avuto è quello di una scissione curda. In questo momento il rischio è particolarmente elevato, perché mentre in molte altre circostanze i curdi non avevano la forza per rivendicare la loro indipendenza con argomenti forti, adesso cominciano ad averla, perché sono diventati indispensabili nella battaglia contro lo Stato islamico.
  • Non c'era Al-Qaeda in Iraq nel 2003 quando gli Stati Uniti invasero e occuparono il Paese, apparve nel momento in cui, avendo disintegrato il regime di Saddam Hussein, trovarono spazio per le loro ambizioni, per i loro piani strategici.[29]
  • Assad e Putin sono autoritari e spregiudicati, ma anche molti generali democratici, durante la Seconda guerra mondiale, non si sono comportati diversamente.[30]
  • Le ragioni per cui la Russia è entrata in campo in Siria sono abbastanza chiare. Quando scoppiarono le prime rivolte arabe, alcuni governi occidentali si schierarono subito contro il governo di Bashar al Assad. Lo hanno fatto molto probabilmente nella convinzione che la fine del regime avrebbe comportato anche la fine della vecchia presenza "sovietica" nelle basi siriane. Non è difficile comprendere quindi perché la Russia sia intervenuta. Voleva difendere il suo alleato e soprattutto la sua tradizionale posizione nella regione. Oggi la sua strategia mi sembra tutto sommato abbastanza chiara. La Russia e il governo siriano potrebbero rinunciare ad una parte del territorio soltanto se il regime di Assad riuscisse a ristabilire la sua autorità nell'area che va da Damasco ad Aleppo. Questa è la ragione per cui Aleppo è al cuore del conflitto. Non si può dunque parlare ancora di una "Pax russa" in Medio Oriente perché gli obiettivi non sono stati ancora raggiunti. Credo che la Russia continuerà a perseguirli. Ma non si può combattere indefinitamente e Mosca potrebbe essere costretta a rivedere la propria politica.[31]
  • Nel suo ultimo discorso, pronunciato al Parlamento di Strasburgo il 17 gennaio 1995, François Mitterrand disse di essere nato durante la Prima guerra mondiale, di avere fatto la Seconda e di essere giunto alla conclusione, durante la sua vita, che «il nazionalismo è la guerra».[32]
  • Se le nostre democrazie hanno deciso che eliminare Assad è una condizione irrinunciabile, dovrebbero prepararsi a ciò che potrebbe succedere dopo.[33]
  • [Sulla Guerra civile siriana] L'unico modo per uscire da questo imbroglio sarebbe quello di decidere quale sia il nemico peggiore: Assad o l'islamismo fanatico e radicale? La Russia ha scelto senza esitare perché vuole conservare le sue basi, deve fare fronte a un pericoloso islamismo domestico e ha un leader che può imporre la propria linea. Le democrazie occidentali, invece, devono rendere conto delle loro azioni alla pubblica opinione e tenere d'occhio il barometro elettorale. Ma se hanno deciso che la eliminazione di Assad è una condizione irrinunciabile dovrebbero almeno prepararsi a ciò che potrebbe succedere in Siria il giorno dopo. E gli europei, in particolare, dovrebbero ricordare che il Mediterraneo è la loro casa, non quella degli americani.[33]
  • Sappiamo che cosa è accaduto. L'Iraq è diventato teatro di una guerra che dura da quattordici anni, ha contagiato l'intera regione e ha lasciato sul terreno un numero incalcolabile di vittime civili. La Tunisia ha dimostrato di avere forti spiriti democratici, ma è continuamente minacciata da gruppi jihadisti lungo le sue frontiere meridionali ed è diventata un vivaio di reclute per le milizie dell'Isis. L'Egitto è stato governato per parecchi mesi dalla Fratellanza Musulmana (una organizzazione che ha rivelato, quando è andata al potere, il suo volto integralista) ed è passato dalla semi-democrazia di Mubarak al regime autoritario e poliziesco del maresciallo Al Sisi. La Libia è stata devastata da una guerra tribale non ancora conclusa ed è oggi il principale capolinea mediterraneo delle migrazioni provenienti dal continente africano. La matassa siriana, in questo quadro, è la più imbrogliata. Di fronte alle proteste popolari Bashar Al Assad ha scelto di restare al potere e di resistere agli insorti. Ha riscosso qualche successo militare perché, a differenza di altri leader, ha potuto contare su alcuni importanti alleati: gli alauiti (una minoranza etnico-religiosa che appartiene alla grande famiglia sciita), i militanti del partito Baath, la borghesia commerciale e industriale di Aleppo, i cristiani e due grandi potenze: la Russia, presente in Siria con due basi militari sin dagli anni in cui si chiamava Unione Sovietica, e l'Iran degli Ayatollah.[33]
  • Macron ha vinto perché la Francia aveva paura del vuoto creato dalla scomparsa di alcuni grandi partiti, del terrorismo islamista, della crisi economica, del grande disordine mondiale e della incognita rappresentata dalla destra nazional-populista.[34]
  • Durante i lavoro della conferenza che si aprì all'Hotel Semiramis del Cairo il 12 marzo 1921 per discutere gli assetti territoriali del Medio Oriente dopo la Grande guerra, Winston Churchill, allora ministro delle Colonie, non riusciva a distinguere i sunniti dagli sciiti. Tuttavia questo non gli impedì di creare in quella occasione due Stati arabi.
    Con la sabbia e le oasi di un territorio che si era chiamato sino ad allora Mesopotamia impastò il regno dell'Iraq.[35]

Libreriamo.it, 2017

  • Putin è l'uomo che in qualche modo si è addossato una responsabilità: quella di restituire dignità e, per quanto possibile, potenza al suo paese.
  • Mi pare che ciò che abbia avuto più importanza per Putin sia stato il crollo dell'Unione Sovietica, nonché della sua patria, un paese che aveva un suo statuto in Europa e nelle relazioni internazionali, un paese che improvvisamente si è disfatto.
  • La Nato è un'alleanza molto diversa dalle alleanze del passato. È un'alleanza politico-militare fatta per fare la guerra. Infatti ha un comando supremo permanente, ha delle basi permanenti in Europa ma anche altrove. Un'alleanza così non può non avere un nemico, è concepita e organizzata in funzione di un nemico. Se non ha un nemico non ha motivo di esistere.
  • I russi hanno sempre preferito nelle presidenziali americane il candidato repubblicano a quello democratico. [...] I repubblicani sono più isolazionisti, meno impiccioni, meno portati a esportare democrazia nel mondo. Sono quindi più realisti, più isolazionisti. I democratici, invece, sono generalmente molto più militanti sotto il profilo democratico, poi naturalmente anche loro si contraddicono, vengono a patti con paesi non democratici, però il partito democratico ha una storia molto più interventista. Ma in generale i russi sono andati abbastanza d'accordo coi repubblicani, Gorbačëv e Reagan, Putin e George W. Bush. Era chiaro che i russi avrebbero preferito Trump.
  • Dopo la grande prova storica dell'invasione dei mongoli e dei tartari, che ha duramente provato il paese, nel momento del Granducato di Moscovia la Russia comincia a crescere, fino a diventare poi un impero. Questo accade su una scala geograficamente colossale. Ancora oggi, la Russia, nonostante le numerose mutilazioni, è di gran lunga lo stato più grande al mondo. E questo allargamento dello stato russo è sempre avvenuto a spese di imperi declinanti, quelli che circondavano prima il Granducato di Moscovia e poi lo stato dello Zar. Questi imperi declinanti erano l'impero cinese, l'impero persiano e l'impero ottomano. Erano i tre grandi imperi che si erano spartiti l'Asia. Quando cominciano a declinare, la Russia inesorabilmente. Che tipo di identità può dare lei a un paese che ogni decennio ingloba centinaia e centinaia di persone appartenenti a stirpi e a gruppi nazionali differenti?
  • La Russia, soprattutto dopo il declino di Bisanzio, si è sempre considerata erede di quella grande tradizione bizantina. Però le popolazioni che fanno parte dell'impero russo sono di straordinaria varietà etnica: ci sono gli armeni, i georgiani, gli uzbeki, i turcomanni, e tanti altri. Inoltre nei confronti di questi popoli la Russia non si è mai comportata come potenza coloniale. È autoritaria, e certamente impone la sua autorità con grande durezza, però i suoi cittadini non russi hanno sempre ottenuto le cariche più alte.
  • Il padre di Aliyev, che è l'attuale presidente dell'Azerbaigian, era un personaggio sovietico di grande importanza. Ed è un azero, non ha proprio nulla di slavo.
  • La letteratura è stato il cemento del paese. Puskin è il loro Dante, è il grande maestro della lingua, il grande poeta, il grande drammaturgo. Poi naturalmente sono venuti Gogol, Dostoevskij a Tolstoj. La letteratura ha cementato l'identità russa. Poi si sono inventati l'Eurasia. Noi siamo qualche cosa che voi europei non siete. Noi abbiamo un'originalità che ci rende in qualche modo autonomi sotto il profilo della nostra autocoscienza, perché siamo euroasiatici.

Da Il regime alla prova

La Stampa, 12 gennaio 2020

  • Il generale Qassem Soleimani, di cui Donald Trump ha decretato la morte, era un militare, ma anche probabilmente, insieme alla Guida Suprema dell'Iran (l'Ayatollah Ali Khamenei), l'uomo più popolare del suo Paese.
  • Dopo avere combattuto nella guerra degli 8 anni contro l'Iraq (quando il Paese di Saddam Hussein godeva del sostegno americano), Soleimani era diventato un eroe nazionale e un possibile successore del Grande Ayatollah alla guida del Paese. Ma anche queste sono considerazioni a cui Trump non è sensibile. Il suo dichiarato obiettivo era quello di provocare in Iran, con sanzioni e altri mezzi, un cambiamento di regime. Se questo era il suo scopo, tuttavia, la morte di Soleimani sembra avere avuto l'effetto opposto: quello di garantire al regime di Teheran una crescente popolarità.
  • [Sulla Rivoluzione iraniana] Per l'Iran la partenza dello Scià nel 1979 è una pagina gloriosa di storia nazionale, il giorno in cui il Paese vendica il colpo di Stato con cui gli americani e gli inglesi, nel 1953, si erano sbarazzati di un leader progressista, Mohammad Mossadegh per restituire il potere a Reza Pahlevi. Per gli americani la cacciata dello Scià, invece, è la perdita dell'uomo che era stato per molti anni la sentinella degli Stati Uniti nel Golfo Persico.
  • Naturalmente anche in Iran esistono fazioni bellicose, islamisti fanatici, strateghi del «tanto peggio tanto meglio». Ma le scuse offerte dal presidente Rouhani quando un missile iraniano ha abbattuto un aereo ucraino, dimostrano che vi sono interlocutori con cui l'Europa può parlare per fare una politica diversa da quella che è stata fatta sinora.

Affarinternazionali.it, 26 febbraio 2020

  • Naturalmente, ogni Paese ha le sue strutture e non ci si può sorprendere se quelle dei Paesi che ancora qualche tempo fa chiamavamo del terzo mondo, non sono attrezzati come quelli occidentali. Non mi sembra sia sorprendente. Tuttavia, credo si stia reggendo alla sfida.
  • Boris Johnson è un camaleonte, perciò a un certo punto dirà cose diverse, uscendo dalla sua posizione di liberista radicale. Siccome è un camaleonte, dirà al suo elettorato altre cose, correggendo da più parti il suo messaggio. Insomma, cercherà di sopravvivere, perché tutto gli è contro in questo momento. La rivoluzione economico-sociale che voleva fare, la riproponeva sulle orme di Trump, contando sul sostegno degli Stati Uniti che avrebbero fatto con il Regno Unito un accordo molto liberista e vantaggioso per Londra. Adesso si sta accorgendo che le cose non stanno così, lo avrebbe dovuto capire prima, ma ha ora compreso l'inaffidabilità di Trump. Punterà a conservare il potere, visto che il consenso nei suoi confronti non è caduto. La Gran Bretagna attraversa un momento di grande delusione nei confronti della democrazia rappresentativa, con la Camera dei Comuni, gioiello della sua storia, che non sta funzionando e il Paese che attraversa una fase difficile. Ecco... Boris Johnson è l'uomo che galleggerà
  • Se Bloomberg vince le elezioni americane, gli Stati Uniti passeranno da un presidente milionario a uno miliardario. Questo è il mondo dell'economia oggi: la finanza ha vinto e continuerà a fare qualche cosa buona e molte cose pessime.
  • Se la democrazia non funziona e l'economia ha favorito la crescita del potere finanziario, a dispetto di quello sudato e guadagnato nelle industrie, c'è qualcosa che non va... mi creda.

Corriere della Sera, 8 maggio 2020

  • Non è la prima volta che un bacillo arriva dall'Asia. La peste nera scese da un altopiano della Mongolia all'inizio del XIV secolo, raggiunse la Turchia, attraversò la Siria e dalle coste del Mediterraneo entrò in Italia, Svizzera, Francia e Spagna provocando, secondo il calcolo di alcuni demografi, non meno di 30 milioni di morti. I vettori erano i topi che viaggiavano nelle stive mentre i tempi di diffusione del morbo erano quelli delle carovane e delle navi mercantili. Ma il numero degli abitanti nei Paesi aggrediti era molto più modesto mentre oggi tutto è infinitamente più grande e più veloce.
  • Credo che il governo abbia dimostrato grande coraggio e che il Paese, soprattutto nelle regioni maggiormente colpite abbia dato prova di disciplina. Ma gli effetti economici saranno pesanti e non è escluso che suscitino malumori e rimpianti.
  • Alcuni uomini di Stato, dall'Ungheria al Brasile, hanno colto l'occasione per appropriarsi di nuovi poteri. Altri come il governo svedese sino alle scorse settimane, l'inglese Boris Johnson quando era ancora leader dei conservatori alla Camera dei Comuni e lo stesso americano Donald Trump nella fase iniziale dell'epidemia, hanno lasciato intendere più meno esplicitamente che era meglio attendere l'immunità di gregge e «lasciar fare». Altri ancora, particolarmente in Italia, stanno già speculando su quelle che potrebbero essere le reazioni della società quando la serrata (o confinamento, come lo chiamano i francesi) avrà considerevolmente ridotto il prodotto interno del loro Paese. Di tutti i mali con cui dovremo convivere, quello della cattiva politica nell'epoca di Trump e dei sovranismi, potrebbe essere il peggiore.

Intervista di Umberto De Giovannangeli, Ilriformista.it, 6 giugno 2020

  • Esercitare la leadership a livello mondiale affatica, stanca. E gli Stati Uniti, anche oltre le pecche evidenti dell'attuale presidente, questa stanchezza l'avvertono.
  • Trump è l'uomo che ha provato a smantellare tutte quelle istituzioni e organismi sovranazionali che hanno cercato di disciplinare, in qualche modo, la società internazionale dopo la fine della Seconda guerra mondiale: disciplinare i traffici commerciali, i rapporti economici e quelli militari. Da presidente, Trump si è trovato a fare i conti con un mondo di grandi organismi e istituzioni internazionali. Un mondo che Trump, anche per ragioni personali antecedenti al suo ingresso alla Casa Bianca, ha sempre concepito, vissuto, come un qualcosa di ostile, di limitante.
  • L'Europa può trarre vantaggio dal declino della leadership americana. Ma deve crederci e non dividersi, come continua a succedere, quando uno dei leader europei più attivi su questa linea, il Presidente francese Emmanuel Macron, prova ad agire per riempire i vuoti lasciati sullo scacchiere internazionale dall'America di Trump.
  • Fuori da una narrazione compiaciuta sull'orgoglio nazionale dimostrato nell'affrontare l'emergenza virale, la realtà evidenzia come questa epidemia abbia spaccato il Paese, tra quanti ritengono che sia assolutamente prioritario, totalmente direi, tutelare la salute come bene comune, e quanti, pur non disconoscendo l'importanza della tutela della salute, ritengono che sia più importante far ripartire l'economia e accumulare ricchezza. Personalmente mi auguro che una volta contenuta l'emergenza Covid-19, questa faida interna possa essere ricomposta. A beneficio del sistema-Italia. Noi oggi stiamo vivendo un passaggio decisivo, forte, verso una società digitale. E in questo, come Italia siamo molto indietro. Non c'è solo la società digitale, ma anche l'intelligenza artificiale. Un esempio: oggi si parla molto delle vetture senza guidatore, come l'investimento del futuro in questo settore. Bene, ma senza la banda larga, il 5G, senza la realizzazione di città informatizzate, non si va da nessuna parte. E i sogni restano tali. Dobbiamo agire più rapidamente, investire maggiori risorse finanziarie e umane in questo campo, se non vogliamo essere tagliati fuori da un mondo, anche economico, sempre più globalmente digitalizzato.

Intervista di Giacomo Galanti sull'assalto al Campidoglio degli Stati Uniti del 2021, Huffingtonpost.it, 7 gennaio 2021

  • L'assalto al Congresso non me l'aspettavo ma non mi sorprende. [...] Questo paese una guerra civile l'ha fatta e sa quale prezzo è stato pagato in termine di odio, di vendette e di sangue. Insomma, questo ricordo avrebbe dovuto rappresentare una sorta di vaccino ma non è andata così.
  • L'America non ha mai cessato di essere completamente razzista. Non c'è un anno dalla sua nascita in cui un certo razzismo appare alla superficie. Questo perché una parte della società americana non ha mai accettato che i neri fossero esseri umani con gli stessi diritti dei bianchi. Però un tempo queste frange rimanevano sulla scena solo nelle settimane della campagna elettorale per poi scomparire o comunque perdere molta della loro visibilità. Mentre ora assaltano il Congresso.
  • Tutto questo sta accadendo in un momento di declino dello status dell'America nella società internazionale. Se l'americano medio un po' razzista ma non troppo, a cui non vanno giù i matrimoni tra omosessuali, constatasse che gli Stati Uniti sono pur sempre leader nel mondo, be', credo ci penserebbe due volte prima di prendere la strada del Congresso. Mentre in questo caso il declino americano c'è.

Intervista di Ruggiero Montenegro sulla caduta di Kabul, Ilfoglio.it, 16 agosto 2021

  • Bisognerebbe chiedersi se l'Occidente ha qualche scusante e ce ne sono poche oggi. Ci siamo impegnati per anni, cercando di portare l'Afghanistan sulla via della modernizzazione, e in qualche misura anche con dei risultati, dal punto di vista dei diritti e delle condizioni di vita. Ma solo fino a che avevamo interessi. Una volta che questi si sono ridotti, per varie ragioni, di politica interna ed estera, abbiamo trascurato il problema afghano.
  • Gli Stati Uniti stanno attraversando una fase in cui gli equilibri interni hanno grande rilievo, e quindi devono in qualche modo seguire l'opinione pubblica che voleva il ritiro dall'Afghanistan. Si potrebbe dire che gli Usa vivono una fase di ipersensibilità elettorale, e questo ha inciso sulle loro decisioni
  • C'è da aspettarsi una nuova ondata migratoria. Anche se l'Unione europea mi pare non voler affrontare neppure questo tipo di problema. Eppure sarebbe proprio nell'interesse europeo trovare una soluzione.
  • Le gelosie tra paesi occidentali rendono i talebani più efficaci. Noi, come Unione europea, siamo diventati ancor più necessari per garantire gli equilibri in Medio Oriente, ma anche in altri teatri del mondo. E se l'Ue non se ne rende conto, se non partecipa alla gestione di questa fase, perde una grande occasione

Intervista di Umberto De Giovannangeli sulla caduta di Kabul, Ilriformista.it, 27 agosto 2021

  • Adesso gli imperi coloniali stanno scomparendo. Questi imperi non hanno più ragione di esistere. Però un certo desiderio di continuare a recuperare poteri perduti esiste ancora nelle società politiche degli Stati Uniti, dell'Europa, dell'Occidente in generale. C'è ancora un tentativo di recuperare spazi perduti. E allora l'Afghanistan è diventato, per così dire, il boccone più desiderabile, anche per il grande disordine che vi regna. Tutto questo ha aperto delle prospettive. Detto questo, bisognerebbe chiedersi tanto per cominciare se tutto ciò abbia un senso. Perché francamente ai tempi degli imperi coloniali un senso ce l'aveva: c'era una gara, questa gara era in qualche modo giustificata dai rapporti internazionali e anche in qualche caso da considerazioni esclusivamente economiche, cioè lì c'era qualcosa che poteva servirmi e allora si cercava di metterci le mani sopra. In questa faccenda afghana c'è una nota di controtempo, che la rende qualche volta addirittura un po' ridicola. Questo gioco all'imperialismo ormai defunto...
  • Con la fine della Guerra fredda, la Nato è finita tra i disoccupati. E siccome a un certo punto, qualche persona, anche in buona fede, ha pensato che dopotutto la Nato rappresenta pur sempre un legame con gli Stati Uniti che non sarebbe prudente mandare a carte all'aria, e allora c'è questo tentativo della Nato di rivalutare se stessa, di dimostrare uno scopo, una qualche utilità. Io guardo soprattutto a noi, all'Europa, perché in Europa ci sono Paesi e gruppi politico-sociali che questo discorso sulla Nato lo fanno. Questo discorso di rivalutazione della Nato con queste funzioni, presenta per noi uno straordinario svantaggio. Perché ci fa dimenticare che la prossima mossa dell'Unione Europea è ricostruire la Ced, la Comunità Europea di Difesa che poi saltò al Parlamento francese. Noi dobbiamo far rinascere la Ced. Non si chiamerà più così, si chiamerà Unione Europea di Difesa o qualcosa del genere. Noi non abbiamo bisogno della Nato. Noi abbiamo bisogno dell'Unione Europea di Difesa.
  • Loro sono la negazione di tutto ciò che noi consideriamo utile per il maggior numero possibile di persone. Sono esattamente il contrario. Perché i Talebani non sono una formazione politica. Sono dei “missionari”. E ragionare con i missionari non è mai facile, e qualche volta è addirittura inutile.

Intervista di Alessandro Farruggia, Quotidiano.net, 7 febbraio 2022

  • Non credo che ci sia l'intenzione della guerra né da una parte né dall'altra. Possiamo quindi sperare che si riesca a controllare la situazione. Ma talvolta il cavallo scappa di mano.
  • Il problema è che l'Ucraina ha dei legami molto forti con la Russia. La storia, la cultura, rendono i due Paesi quasi fratelli gemelli. L'idea di una Ucraina che diventa parte della Nato è quindi inaccettabile per Mosca. E credo con qualche ragione. L'America sembra non essere pienamente consapevole di questo, gioca d'azzardo, convinta che la Russia, alla fine, accetterà il fatto compiuto.
  • Il pericolo russo credo sia oggi molto esagerato e che in America venga utilizzato come giustificazione. Dobbiamo chiederci se il pericolo è reale o se l'America ha bisogno di un nemico senza il quale la sua politica militare non sta in piedi.
  • Io ho sempre pensato che c'è una soluzione per l'Ucraina: la neutralità. L'Ucraina dovrebbe essere la Svizzera dell'Europa orientale. La neutralità è una sovranità che tutti hanno l'interesse di proteggere. L'Ue dovrebbe avere il coraggio di proporlo, anche se questo non piacerebbe agli Stati Uniti.

Intervista di Stefano Iucci sull'invasione russa dell'Ucraina del 2022, Collettiva.it, 1 marzo 2022

  • Trovo interessante - anche se il tutto va preso con grande prudenza - che il concetto di neutralità sembra essere entrato anche nel progetto di Putin. Certo, il leader russo parla anche di una Ucraina denazificata, ma questo fa parte della sua propaganda, della sua strategia. Però poi aggiunge che l’obiettivo finale è la neutralità del paese. Per fortuna questa parola non è scomparsa dal linguaggio politico, staremo a vedere.
  • Io credo che l’Unione europea abbia sofferto le conseguenze della presenza della Nato, perché i paesi dell’Est che sono entrati nella Nato e che sono anche membri dell’Ue tengono più alla Nato di quanto non tengano all’Unione. [...] La Nato assicura loro ciò a cui più tengono: vale a dire un rapporto molto stretto con gli Usa da cui sperano anche di essere protetti in certe eventualità. Insomma: abbiamo acquisito dei membri che - uso una brutta espressione – hanno un "padrone" altrove. E questo non giova all’Unione: significa che abbiamo degli amici che non sono del tutto amici.
  • Sono convinto che il prossimo passo per garantirsi un’esistenza "positiva" nel tempo sia quello di dotarsi di un’organizzazione militare comune. In altre parole, l’Unione europea deve sostituirsi alla Nato.

Intervista di Giuseppe Scarpa sull'invasione russa dell'Ucraina del 2022, Ilmessaggero.it, 4 marzo 2022

  • Questo restauratore dell'impero russo è partito con il piede sbagliato. La sua iniziativa bellica produce il risultato opposto: il dissenso aperto da parte degli altri Paesi. I governanti e i popoli di altre nazioni osservano il comportamento del maggiore uomo politico russo. La sua politica genera diffidenza. Adesso sarà circondato da nazioni sospettose che non si fideranno mai di lui.
  • Sono sempre stato molto critico su alcune decisioni della Nato. L'Alleanza ha un punto di riferimento forte che sono gli Usa. Chi entra nell'Alleanza entra in un'organizzazione in cui gli Stati Uniti hanno una posizione dominante. Tuttavia associare Hitler all'America, come sta facendo Lavrov, è sbagliato, stupido. Ho la sensazione che lo stesso ministro degli Esteri russo, diplomatico di grande esperienza, stia dicendo cose gradite a Putin.
  • Noi dobbiamo evitare di mettere l'intero Paese in un angolo. Dobbiamo cercare di mettere in un angolo Putin. A Mosca ci sono personalità capaci di sostituirlo.

Intervista di Giambattista Pepi sull'invasione russa dell'Ucraina del 2022, Quotidianodelsud.it, 15 marzo 2022

  • Le sanzioni di oggi possono essere equiparate agli assedi dei castelli nell’antichità, quando si cercava di fiaccare la resistenza prendendo i popoli che vi erano asserragliati per fame.
  • Non stiamo parlando di un leader democratico: Putin è un dittatore, e resiste nella speranza che altri si oppongano alle sanzioni, perché le sanzioni sono armi a doppio taglio, possono far male anche a coloro che le applicano.
  • Tutto ciò che ha un inizio avrà una fine. Ma Putin può resistere più a lungo di un presidente democratico. Tutti questi leader sanno che dovranno prima o dopo rendere conto del loro operato al proprio Paese. Ma Putin è il solo che non ha fretta, perché la sua legittimazione non proviene dalle urne, ma dal potere assoluto che esercita e controlla a piacere suo.
  • L’obiettivo di Putin non è conquistare l’Ucraina, perché non sarebbe comprensibile nemmeno nella prospettiva russa. Ho sempre avuto l’impressione che la Russia avrebbe cercato con gradualità di ricostituire quel potere che aveva nel passato. È sempre stata una grande potenza, che avesse quell’ambizione mi sembrava comprensibile e persino inevitabile.

Intervista di Paolo Salom sulla morte di Michail Gorbačëv, Corriere.it, 31 agosto 2022

  • Noi del corpo diplomatico capimmo subito che Gorbaciov rappresentava una novità assoluta per l'Urss, che si stava per aprire una stagione senza precedenti.
  • Dopo una serie infinita di personaggi "ingessati", ecco arrivare al vertice dell'Urss un uomo garbato ed elegante, capace di muoversi con tatto nella gabbia del potere sovietico.
  • Rimproveravo a Mikhail Sergeevic di non avere un vero programma economico. Va bene concedere più libertà: tutti erano giustamente contenti. Ma cosa fare del sistema di produzione collettivo? Lui parlò della creazione di una "industria sociale": ma non spiegò mai in cosa consistesse. Per come la vedevo io, si trattava di introdurre nelle aziende di Stato un po' di democrazia interna. Ma per il libero mercato, per le privatizzazioni (con il risultato di creare un esercito di oligarchi) dovevamo attendere l'arrivo di Eltsin.

Sulla morte di Michail Gorbačëv, Corriere.it, 3 settembre 2022

  • Per noi è l’uomo che ha messo fine alla guerra fredda, stretto rapporti cordiali e positivi con tutte le democrazie occidentali (fece una eccellente impressione sulla signora Thatcher, durante un viaggio a Londra), tessuto utili relazioni personali con i maggiori leader del pianeta, aperto i mercati del suo Paese al commercio internazionale. Per molti russi, invece, Gorbaciov sarebbe responsabile della disintegrazione dell’Unione Sovietica.
  • [Sul PCUS] Era certamente vero che il partito aveva paralizzato l’intero Paese con le sue catene ideologiche e con la sua puntigliosa burocrazia. Ma era altrettanto vero che il partito era la spina dorsale del Paese.
  • Un altro colpo mortale fu inflitto al Paese quando fu deciso di privatizzare le aziende statali. Per realizzare questo disegno ed evitare che il cittadino russo cadesse nuovamente tra le braccia del comunismo, fu deciso che tutti sarebbero diventati proprietari. L’obiettivo era chiaro ma l’applicazione avrebbe richiesto una maggiore gradualità. Per aumentare il numero dei proprietari fu deciso che ogni cittadino russo avrebbe ricevuto una somma di voucher (noi diremmo «buoni») con cui avrebbe comperato il maggior numero possibile di azioni. Ma a questo punto entrarono in scena persone abili e spregiudicate che comperavano voucher per farne azioni. E in tempi relativamente brevi la vecchia patria del comunismo divenne un mercato di voucher.

Intervista di Umberto De Giovannangeli sull'invasione russa dell'Ucraina del 2022, Ilriformista.it, 9 settembre 2022

  • Il passaggio al nucleare è un passaggio drammatico se non addirittura tragico. E questo, paradossalmente, ci risparmia o per lo meno ci ha risparmiato sinora dalla guerra totale, quella vera.
  • L’America sta attraversando una crisi. Una crisi istituzionale, costituzionale, molto profonda. Trump ha in qualche modo aperto un nuovo capitolo della storia politica americana. Continua ad essere considerato un pericolo, è certamente uomo che in circostanze internazionali di particolare importanza, cercherebbe di valorizzare se stesso. E valorizzare se stesso significa criticare chi è al potere.
  • La Russia in cui agiva Gorbaciov era ancora, nonostante Gorbaciov fosse un uomo nuovo, retta da metodi “staliniani”, con un forte rigore e rigidità. Adesso la Russia è diventata più agile, i suoi uomini politici si muovono con maggiore disinvoltura, forse troppa. Stiamo parlando di due realtà completamente diverse.
  • [Su Michail Gorbačëv] Ha avuto il merito di restituire al suo Paese la libertà di pensiero, la libertà di stampa ma soprattutto la libertà di viaggiare. Non bisogna dimenticare che prima di Gorbaciov l’Urss era un paese in cui il cittadino sovietico viaggiava con grandi difficoltà, e non soltanto all’estero. In altri campi è stato meno efficace anche se certamente non sarebbe stato facile per nessuno cambiare da un giorno all’altro le cose nell’Urss. Purtroppo non aveva un programma economico che invece fu usato e molto efficacemente dal suo successore che fu Boris Eltsin.
  • Certo, non siamo la maggiore delle grandi potenze o una grande potenza, però siamo potenza. Io me ne accorgo non quando qualcuno a Roma si batte il petto e dice siamo una grande potenza. Me ne accorgo quando vedo il modo in cui ci considerano dall’estero. E si chiedono cosa l’Italia potrebbe fare in questo caso. Insomma, siamo un Paese che conta.

Da Lettere al Corriere

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  • L'Italia non è uno Stato laico: è uno Stato concordatario. (Stato concordatario, 19 luglio 2005)
  • È vero che molti italiani non decidono la destinazione dell'8 per mille, ma la maggioranza di coloro che danno una indicazione sceglie la Chiesa. Che cosa può osservare un laico di fronte a una tale decisione? Forse semplicemente che molti italiani, credenti o no, riconoscono alla Chiesa un'utile funzione sociale o, peggio, che non si fidano del modo in cui lo Stato spende i suoi soldi. (L'8 per mille e i suoi precedenti storici, 20 luglio 2005)
  • [Sul magistrato che si è rifiutato di amministrare la giustizia finché nell'aula non toglieranno il crocifisso] Personalmente credo che un pubblico ufficiale non dovrebbe servirsi delle sue funzioni per promuovere una causa o condurre una personale battaglia politica o ideale. Le funzioni non gli appartengono. Gli sono state conferite nell'interesse della società e non possono essere interrotte semplicemente perché il suo titolare vuole manifestare preferenze o dissensi. (Il crocifisso nei tribunali e le proteste di un giudice, 26 ottobre 2005)
  • Benché «filosofo del fascismo», secondo la definizione che accompagnava abitualmente il suo nome, Gentile proteggeva l'autonomia della Normale dalle ingerenze di Carlo Scorza, responsabile dei Fasci giovanili, e cercava di tenere la politica lontana, per quanto possibile, dallo straordinario palazzo del Vasari che domina la piazza dei Cavalieri. [...] Gentile e Capitini si separarono [...] nella sala delle adunanze del palazzo dei Cavalieri. Il filosofo disse di sperare che «le future esperienze gli facessero vedere la vita e la realtà delle cose sotto un aspetto diverso»; e Capitini rispose che non poteva fare altro che «contraccambiare l'augurio». Fu certamente una rottura. Ma non appena il giovane pacifista uscì dalla sala, il filosofo si voltò verso Francesco Arnaldi, che aveva assistito a questo scambio di battute, e disse «Abbiamo fatto bene a mandarlo via perché, oltre tutto, è un galantuomo». (da Aldo Capitini e il pacifismo alla Scuola Normale, 4 luglio 2006)
  • [Sulla casta dei giornalisti e la cancellazione dell'Ordine] L'idea che ogni persona debba essere giudicata dai suoi pari prefigura un possibile conflitto di interessi ed è feudale, cioè tipica di una società costituita da poteri autonomi, autogestiti e autoreferenziali. Gli Ordini obbediscono inevitabilmente alla logica dell'autoconservazione e del potere. (Ordini professionali: l'anomalia dei giornalisti, 30 dicembre 2006)
  • Il trattato di Osimo (Ancona) del 1975 confermò le intese provvisorie del 1954 e fissò definitivamente la frontiera italo-jugoslava cedendo al regime di Tito l'Istria, le isole italiane della Dalmazia, Fiume e buona parte della Venezia Giulia. Oggi, dopo quanto è accaduto in Jugoslavia negli anni Novanta, sappiamo che sarebbe stato meglio non firmarlo. (Da Il trattato di Osimo e la Ostpolitik dell'Italia, 15 febbraio 2007)
  • È bene ricordare che Roosevelt dichiarò guerra soltanto al Giappone. Furono i tedeschi e gli italiani che dichiararono guerra agli USA l'11 dicembre 1941. (George Washington e l'isolazionismo americano, 23 maggio 2007)
  • In tutte le scuole europee e americane l'insegnamento della storia è servito ad affermare la legittimità degli Stati nazionali e a suscitare l'orgoglio dei loro cittadini. Gli autori dei manuali scolastici risalivano il corso del tempo per individuare e ingrandire fattori e vicende che sembravano preannunciare il destino nazionale dei popoli insediati su un particolare territorio. Abbiamo appreso la storia come un teorema rovesciato, ricavando le premesse che ci facevano comodo. (Studiare la storia dimenticata dai manuali, 26 giugno 2007)
  • Esistono dichiarazioni a cui la classe politica italiana ricorre frequentemente: ho fiducia nella giustizia; le manifestazioni popolari sono il sale della democrazia; il capo dello Stato è il presidente di tutti gli italiani; gli scioperanti hanno esercitato il loro diritto; le forze dell'ordine hanno dato prova di abnegazione. Sono il "politicamente corretto" degli italiani e vengono usate generalmente quando colui che se ne serve pensa esattamente il contrario. (Il pensiero e la parola 28 giugno 2007)
  • A proposito di Wikipedia, caro Magini, posso dirle soltanto che questa enciclopedia online è uno dei frutti più sorprendenti della grande rivoluzione che il computer personale e Internet hanno provocato nel campo della comunicazione. In un articolo pubblicato dal settimanale Mondo del 13 luglio, Andrea Turi ricorda che la parola "wiki" viene dal linguaggio parlato nelle isole Hawaii e significa "rapido". La parola allude alla rapidità con cui le informazioni appaiono sullo schermo, ma vale anche per il suo straordinario sviluppo in pochi anni. È nata in inglese il 15 gennaio 2001, ma sono bastati soltanto quattro mesi perché venissero create 13 edizioni fra cui una italiana. Oggi il suo sito è uno dei dieci più frequentati nel mondo e registra ogni sei mesi circa sei miliardi di accessi. È una enciclopedia in cui tutti possono scrivere e a cui tutti possono attingere. Si compone di circa sette milioni di voci (poco meno di 350.000 in italiano) ed è scritta in circa 250 lingue da uno stuolo di collaboratori anonimi, curiosi, appassionati di temi particolari e ansiosi di gettare le loro informazioni nel grande mondo della rete. Insomma Wikipedia è una cattedrale che cresce spontaneamente, senza disegni e architetti grazie alla collaborazione di parecchie migliaia di muratori volontari. È inevitabile, in queste condizioni, che qualche colonna sia sghemba, qualche arco mal calcolato, qualche pietra difettosa, qualche prospettiva ingannevole. Ma gli errori ideologici, le sviste e i partiti presi non mi impediranno di continuare a consultarla. Raccomando ai lettori di fare altrettanto con il tradizionale ammonimento che accompagna le buone medicine: usare con cautela.[36] (da Come insegnare il friulano e leggere Wikipedia, 25 settembre 2007)
  • [Su Alija Izetbegović] I diplomatici inglesi e americani che lo incontrarono durante la grande crisi della prima metà degli anni Novanta scoprirono una personalità enigmatica. Desiderava conservare l'unità multietnica della sua repubblica, ma era profondamente religioso e incline a lasciare che la fede, nelle questioni controverse, avesse il sopravvento. (da I musulmani di Bosnia nella Jugoslavia di Tito, 4 Aprile 2009)
  • [Sulla battaglia di Adua] La notizia dello sconfitta arrivò in Italia nella giornata del 2 marzo. A Milano e in altre città dell'Italia settentrionale la gente si riversò nelle strade e occupò le stazioni per impedire la partenza dei rinforzi che dovevano imbarcarsi per l'Africa di lì a pochi giorni. Il bersaglio di quelle dimostrazioni era Crispi, colpevole di avere trascinato il Paese in una guerra difficile e sanguinosa. Molti spinsero la loro gioia sino a gridare "Viva Menelik! ", e il grido parve alla classe dirigente una assurda manifestazione anti-nazionale, una prova dei sentimenti eversivi che serpeggiavano nel Paese. Ma era anche il segno della fragilità della coscienza nazionale e dell'apparizione di una sinistra internazionalista, molto diversa da quella mazziniana e democratica che aveva contribuito alla unificazione dell'Italia. (da La sconfitta di Adua e le reazioni del Paese, 30 ottobre 2009)
  • Adua non fu la sola sconfitta di una potenza coloniale europea in quegli anni. Gravi rovesci toccarono anche ai britannici in Africa e ai francesi in Indocina. Ma la Gran Bretagna e la Francia ebbero nervi più saldi e reazioni meno emotive. Ad Adua, nel 1896, l'Italia fu sconfitta due volte: da Menelik e da se stessa. (da La sconfitta di Adua e le reazioni del Paese, 30 ottobre 2009)
  • [Su Getúlio Vargas] Il suo Estado Novo ricorda i progetti corporativi del regime fascista, ma filtrati attraverso la mediazione di Salazar, un uomo politico portoghese molto autoritario, ma poco incline a quella organizzazione ideologica della società che caratterizzò fascismo e nazismo. (da Dittatori del novecento. Non tutti furono fascisti, 25 aprile 2013)
  • Le riforme sono difficili in Italia [...] perché ogni corporazione, dai maggiori ordini professionali alla più modesta sigla sindacale, ha di fatto un diritto di veto. Abbiamo spinto il concetto di democrazia sino a generare il suo opposto: la tirannia delle minoranze. (da La battaglia per le riforme vinta a Berlino, persa a Roma, 30 luglio 2014)
  • [Sull'attentato alla sede di Charlie Hebdo del 2015] Le reazioni delle opinioni pubbliche e dei governi democratici all'attentato contro la redazione di un giornale satirico francese hanno dato l'impressione che l'Occidente consideri la libertà d'espressione alla stregua di un valore assoluto e intoccabile, da difendere sempre e comunque, indipendentemente da ogni altra considerazione. Non è vero, naturalmente. Non vi è Paese, fra quelli rappresentati in prima fila alla grande manifestazione di Parigi, che non abbia leggi in cui vengono fissati confini e paletti. (da Libertà di espressione si, ma con giudizio, 15 gennaio 2015)

I volti della storia

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  • È difficile oggi, a più di vent'anni dalla morte, fare l'elogio di Tito. Il dio a cui si convertì è fallito.
    Le sue numerose riforme economiche non hanno sortito altro effetto fuor che quello di rallentare lo sviluppo del paese. Lo Stato che egli ha creato alla fine della seconda guerra mondiale si è drammaticamente disciolto. Il ricordo delle sue vittime (fra cui molti italiani) oscura quello dei suoi trionfi internazionali. [...] Come spiegare al lettore che il suo funerale fu onorato dalla presenza di tre re, ventuno capi di Stato (fra cui il presidente dell'Unione Sovietica) e sedici primi ministri? Come spiegare al lettore italiano, in particolare, che il governo di Roma, per coltivare l'amicizia, gli perdonò le foibe, il colpo di mano su Trieste nella primavera del 1945 e l'esodo degli istriani fra il 1945 e il 1947? Come spiegare che Tito rimane, nonostante i vizi e gli errori, uno dei grandi protagonisti del ventesimo secolo? (p. 166)
  • Dopo le riforme fallite degli anni Settanta i quattro mesi della sua agonia all'inizio del 1980 furono la metafora del male che avrebbe distrutto negli anni seguenti il suo Stato. Ma nessuno potrà mai scrivere la storia del Novecento senza ricordare che Tito combatté due guerre, una contro Hitler, l'altra contro Stalin; e le vinse entrambe. (p. 171)
  • Per Theodor Herzl, profeta dello «Stato ebraico» e fondatore del movimento sionista, i palestinesi non esistevano. La terra dove gli ebrei europei avrebbero costruito la loro nazione presentava ai suoi occhi il doppio vantaggio di essere povera e «vuota». Sperò che il sultano di Costantinopoli l'avrebbe venduta (gli offrì un milione e seicentomila sterline) e che avrebbe permesso in tal modo a un «popolo senza terra di far fiorire una terra senza popolo». Herzl non ignorava naturalmente l'esistenza di una popolazione indigena e sapeva che il numero degli arabi e degli ebrei a Gerusalemme, nella seconda metà dell'Ottocento, era pressoché eguale. Ma dovette giungere alla conclusione che non erano un popolo, che non avevano una identità nazionale e che si sarebbero spostati altrove, senza sollevare obiezioni, per fare posto ai cittadini dello Stato sionista. Non aveva del tutto torto. Alla fine dell'Ottocento «Palestina» era soltanto un termine storico, desunto dal nome di una provincia romana, e i «palestinesi» non esistevano. Li avrebbe creati, nei decenni seguenti, il movimento di Theodor Herzl. (p. 315)

Le altre facce della storia

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  • Non è vero che il Medio Oriente sia stato sempre «islamista». Negli ultimi decenni del Novecento i regimi arabi erano quasi tutti laici. Il partito Baath, di cui Saddam Hussein fu il principale esponente iracheno, fu sempre detestato dai movimenti islamici del Medio Oriente. Il suo fondatore Michel Aflaq fu una delle personalità più interessanti di quel periodo.
  • Nel fascismo italiano e nel nazionalsocialismo tedesco Aflaq credette di trovare tutti gli ingredienti necessari alla modernizzazione delle società arabe e alla nascita di un grande movimento panarabo: un partito di massa, un apparato composto da militanti laici, una società militarizzata e pronta a difendere la patria contro le potenze coloniali, una economia diretta dall'alto con una forte partecipazione dello Stato, capace di dare lavoro e prosperità ai ceti più miserabili della popolazione.

Storia d'Italia dal Risorgimento ai nostri giorni

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La storia dell'Italia unitaria può essere raccontata secondo due prospettive contraddittorie. Come storia d'un grande fiume sotterraneo che emerge alla superficie dopo avere attraversato, nascosto e intatto, mille anni di storia europea. E come storia di coincidenze, avvenimenti casuali, calcoli sbagliati, errori generosi. La prima generazione dell'Italia unitaria lavorò, consciamente o inconsciamente, a ricostruire un passato lineare in cui tutto preannunciava la grande redenzione del 1859. Gli scrittori riscoprirono vicende «italiane», storie di vita comunale, eroi d'una patria smembrata e oppressa.

Citazioni

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  • Cavour era portato agli studi sociali e politici, ma non ebbe né tempo né occasione di elaborare una propria riflessione sulla società italiana e sulle forme del suo divenire. Per lui i modelli politici ed economici a cui ispirarsi erano altrove, a Parigi e a Londra. Occorreva creare le premesse politiche affinché l'Italia potesse finalmente adottarli; il resto sarebbe venuto da sé. Quale Italia? Pragmatico e sottile, Cavour lasciava spazio agli avvenimenti ed era pronto a coglierne il senso, la direzione. Ma l'obiettivo iniziale era certamente la costituzione d'uno Stato omogeneo, limitato alle regioni settentrionali. L'Italia centro-meridionale, dal Lazio alla Sicilia, gli appariva lontana e indecifrabile. (1. Le intenzioni e il caso – 1848-1876, cap. 1, p. 19)
  • Se Cavour era privo di grandi disegni ideali, Mazzini ne era ricchissimo. Dal Romanticismo e dalla rivoluzione francese aveva ereditato il concetto di nazione, e tale concetto aveva applicato non solo all'Italia, ma all'Europa. Credeva alla necessità che ad ogni diritto corrispondesse un dovere e che nessuno potesse pretendere alcunché senza aver dato, generosamente. In questo equilibrio fra diritti e doveri Mazzini risolveva, o credeva risolvere, le tensioni sociali, i contrasti delle classi, le divergenze fra le nazioni. (1. Le intenzioni e il caso – 1848-1876, cap. 1, p. 20)
  • Cavour, Mazzini e il federalista Cattaneo avevano una visione, più o meno elaborata, della società che desideravano realizzare. Garibaldi aveva soprattutto sentimenti, intenzioni. Il suo apporto «ideologico» all'unità italiana è pressoché nullo. Ma la sua influenza, nel bene e nel male, fu enorme e le sue tracce sul percorso della storia unitaria, dal 1859 in poi, profonde e durature. (1. Le intenzioni e il caso – 1848-1876, cap. 1, p. 21)
  • Dei tre caratteri che distinguono una nazione nell'ideologia liberale e romantica dell'800 – la lingua, la storia e la fede – l'Italia unitaria aveva soltanto la terza. Gli italiani erano quasi tutti cattolici, ma avevano storie diverse e parlavano lingue diverse. (1. Le intenzioni e il caso – 1848-1876, cap. 3, p. 68)
  • Al momento della creazione dello Stato unitario la «lingua nazionale» era in realtà il latino della società italiana: una lingua remota, parlata da piccoli ceti sociali, non alimentata, come accadeva altrove in Europa, dagli umori e dalle esigenze quotidiane della borghesia e delle classi popolari. (1. Le intenzioni e il caso – 1848-1876, cap. 3, p. 70)
  • Custoza fu assai più d'una battaglia sfortunata. Essa parve smentire i sentimenti che avevano accompagnato l'attesa dell'unità e che avevano conferito al moto unitario la sua legittimità morale. Il Risorgimento nazionale non aveva ridato agli italiani le loro grandi virtù naturali, non aveva risvegliato il loro valore e il loro coraggio. L'Italia unita del 1866[37] aveva combattuto peggio di quella divisa del 1859[38]. (1. Le intenzioni e il caso – 1848-1876, cap. 5, p. 90)
  • La cronaca della vita di Francesco Crispi e delle posizioni che egli assunse durante la sua lunga carriera politica è un catalogo di tutto ciò che fu fatto e detto dalla prima generazione unitaria, una straordinaria sintesi delle mille contraddizioni personali e ideologiche che caratterizzarono la storia nazionale dal 1848 al 1900. (2. Allargare la società – 1876-1910, cap. 3, p. 129)
  • [...], Pelloux, è ambiguo, come tutti coloro che hanno incarnato in Italia i momenti nazional-popolari della sua storia. È un generale, ma è l'unico che durante i moti del 1898 abbia rifiutato di decretare lo stato d'assedio nella provincia di cui è responsabile. È stato scelto dal re fra gli uomini che gli sono personalmente fedeli, ma è gradito alle sinistre. Vorrebbe governare senza il controllo del Parlamento, ma alla testa d'un governo in cui gli uomini della Sinistra costituzionale sono largamente rappresentati. (2. Allargare la società – 1876-1910, cap. 5, pp. 155-156)
  • La Cassa del Mezzogiorno e gli insediamenti industriali nelle province meridionali furono certamente un tentativo per unificare il paese dando agli italiani eguali possibilità di lavoro, di educazione e di promozione sociale. Ma lo sciagurato risultato di quella politica è sotto i nostri occhi. Il giudizio sulle responsabilità spetta agli storici del futuro, ma non è necessario attendere il loro responso per constatare che la prassi della democrazia consociativa – risorse contro consenso, favori contro voti – ha accentuato le differenze tra le diverse parti della penisola e che la strategia della Cassa del Mezzogiorno è complessivamente fallita. (4. Dall'antifascismo alla democrazia – 1935-1998, cap. 12, p. 388)

Incipit di Libera Chiesa. Libero Stato?

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Il 19 settembre 1870 Pio IX uscì dal Vaticano per visitare la Scala Santa. Sulla via del ritorno il popolo di Roma lo applaudì calorosamente. Gli stessi applausi, scrisse molti anni dopo Stefano Jacini, accolsero i bersaglieri del generale Cadorna la sera del 20 settembre. Comincia così, fra due manifestazioni popolari di segno opposto, la storia della convivenza fra Stato e Chiesa in una città che fu da quel momento capitale di un Regno e di una Chiesa universale.

Putin e la ricostruzione della grande Russia

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  • L'ultimo mandato di Boris El'cin è la storia di un penoso declino. Il vecchio avversario di Gorbačëv soffriva di gravi disturbi cardiaci, beveva troppo, era circondato da una corte di famigliari ingordi, spesso sovvenzionati dagli oligarchi. Negli anni in cui aveva governato la Russia non era riuscito a creare un partito a cui affidare il compito di formare la classe politica delle prossime generazioni. Le condizioni del Paese, nel frattempo, potevano soltanto peggiorare. (p. 25)
  • I servizi del Regno Unito avevano arruolato Litivenko, si erano impegnati a proteggerlo e gli avevano dato quella che avrebbe dovuto essere la più sicura delle garanzie: la cittadinanza britannica. I servizi russi volevano dimostrare che erano in grado di punirlo anche nella casa del suo nuovo padrone con la più micidiale, crudele e imprevista delle armi. (p. 35)
  • La Russia è troppo grande e troppo scarsamente popolata per adattarsi felicemente a un sistema in cui si discute, si litiga, si fanno battaglie civili per la conquista di nuovi diritti e si accetta volentieri, per il gusto della libertà, quel margine di litigiosità e instabilità che è quasi sempre il prezzo della democrazia. La Russia è troppo patriottica e sospettosa del mondo esterno per non apprezzare lo stile di un leader che vuole riconquistare il prestigio del suo Paese nel mondo. (p. 41)
  • Patria e fede sono in Russia i due volti di una stessa medaglia. (p. 48)
  • I bolscevichi trattarono la Chiesa ortodossa con straordinaria durezza perché erano internazionalisti, atei o miscredenti. Ma quando l'imperialismo russo divenne, nella ideologia del regime, non meno importante del comunismo, la Chiesa fu nuovamente indispensabile. E quando lo Stato russo corse il rischio di affondare nel grande naufrago dell'Urss, coloro che volevano salvarlo e restaurare la sua autorità dovettero ricorrere nuovamente all'Ortodossia. Gorbačëv e El'cin, anche se il primo fu battezzato alla nascita, erano cresciuti nel sistema sovietico, ne avevano interiorizzato sin dall'infanzia le credenze e le ricorrenze. Capirono subito che occorreva restituire alla Chiesa lo spazio perduto, ma non potevano spingersi sino a recitare con la necessaria compunzione la parte del devoto. Putin, invece, la recita tanto più facilmente, quanto più la devozione diventa il necessario complemento di un disegno ideologico. (pp. 48-49)
  • La vera storia dei russi, quella che li rende diversi da qualsiasi altro popolo europeo e comparabili, anche se soltanto per certi aspetti, ai romani e agli americani, è la storia della loro continua, instancabile avanzata attraverso i grandi spazi dell'Europa orientale e dell'Asia.
    Lo spazio ha foggiato le loro istituzioni, condizionato la loro cultura politica, creato quella combinazione di aggressività e di paura che è ancora oggi il dato caratteriale della loro identità nazionale rubando i tratti dei popoli conquistati e di quelli da cui sono stati invasi. Sono cristiani ed europei perché di tutti i popoli che trovarono sulla loro strada quelli dell'Europa cristiana potevano maggiormente offrire allo Stato russo le istituzioni e gli strumenti di cui aveva bisogno. Ma sono contemporaneamente svedesi, finnici, baltici, ottomani, persiani, armeni, georgiani, azeri, tatari, uzbechi. (p. 70)
  • Le ragioni della diffidenza di Putin per qualsiasi forma di opposizione sono probabilmente, al tempo stesso, personali e russe. Il presidente proviene da una organizzazione che dava per scontata l'esistenza di nemici «telecomandati» da potenze straniere che occorreva contrastare con tutti i mezzi disponibili, da quelli dell'intelligence a quelli repressivi e polizieschi. (p. 101)

Citazioni su Sergio Romano

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  • Diamo 5 notizie a Sergio Romano [sull'invasione russa dell'Ucraina del 2022]:
    1) le migliaia di persone uccise e torturate dai russi erano russofone;
    2) gran parte di quelli che si difendono dai russi sono russofoni;
    3) Zelensky è russofono;
    4) russofono non vuol dire russo;
    5) sostenere il contrario è propaganda russa
  • Per Romano l'11 settembre è stato un inammissibile atto barbarico, ma non uno spartiacque per cui valesse la pena rischiare di stravolgere consuetudini, costumi e status quo mondiale. La conseguenza di questo minimalismo è che la risposta al terrorismo islamista è stata sbagliata, irresponsabile e pericolosa. Una tesi legittima, ma che nel corso degli anni il suo autore è stato costretto a modificare innanzi alle confutazioni ricevute sul campo. Il caso più clamoroso è quello dell'assassinio di Enzo Baldoni, il reporter pacifista ucciso in Iraq dalla guerriglia. Romano si stupì che gli islamisti avessero ucciso un pacifista, visto che fino a quel momento era prevalsa la "comprensibile", così scrisse, logica antiamericana dei terroristi. L'ambasciatore, insomma, non aveva colto l'essenza dello scontro, che non è legato alle politiche "arroganti", "saccenti", "inconsistenti", "prigionere della lobby religiosa" e "dilapidatrici del patrimonio morale e civile dell'America" elaborate da Bush: viceversa non si spiegherebbe la carneficina di iracheni, musulmani, europei e buddisti.
  • Romano sostiene che Saddam non era un pericolo e che guidava uno Stato laico, cancellando così la conversione islamista del regime alla fine degli anni 80, i finanziamenti ai kamikaze, i rapporti con al Qaida provati dalla Commissione sull'11 settembre, l'ospitalità ad Abu Abbas, Abu Nidal e Al Zarqawi, il collegamento con Ansar al Islam, le violazioni delle risoluzioni Onu e la condivisione del medesimo progetto politico di bin Laden: conquistare il mondo arabo, distruggere Israele, sconfiggere gli americani.
  1. Da Baciapile, in Giorgio Calcagno (a cura di), L'identità degli italiani, Editori Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 13. ISBN 88-420-5656-1
  2. Da Baciapile, in Giorgio Calcagno (a cura di), L'identità degli italiani, Editori Laterza, Roma-Bari, 1998, pp. 12-13. ISBN 88-420-5656-1
  3. a b Da L'impero esploso, La Stampa, 21 aprile 1989.
  4. Le elezioni politiche del 1948 che videro contrapposte le liste della Democrazia Cristiana e del Fronte Democratico Popolare (socialisti e comunisti).
  5. Da Quel processo a Parigi condannò la sinistra, La Stampa, 1º luglio 1991, p. 13.
  6. Da Studioso? No, è un morbo, La Stampa, 8 luglio 1992.
  7. Da La rivoluzione brucia, La Stampa, 26 febbraio 1993.
  8. Da La politica di Berlusconi. Il partito-azienda, La Stampa, 17 dicembre 1993, p. 1.
  9. Da Ora basta con le carte truccate, La Stampa, 8 febbraio 1994.
  10. Da La Stampa, 7 agosto 1995.
  11. Da Dal Kurdistan fino alla Scozia: le ragioni deboli delle secessioni (e i diritti degli altri), Corriere.it, 14 luglio 2005.
  12. Da Vita e morte di Reza Pahlavi. Il rischio del denaro facile, Corriere.it, 1 agosto 2009.
  13. a b c Da Fascisti Islamici, Corriere.it, 12 agosto 2006.
  14. a b Da Karadzic e il sipario della storia, Cdt.ch, 31 ottobre 2009.
  15. Da Corriere della sera, 28 dicembre 2009.
  16. Da Strana guerra senza vincitori, Corriere.it, 22 agosto 2011.
  17. a b c Da I veleni in coda a una dittatura, Corriere.it, 24 agosto 2011.
  18. a b Da Una missione mai compiuta, Corriere della Sera, 23 dicembre 2011.
  19. Da Come amare la storia, Corriere della Sera, 15 aprile 2012.
  20. Da Il termometro di Teheran, Corriere.it, 14 giugno 2013.
  21. Da Il Mediterraneo dimenticato, Corriere.it, 30 giugno 2013.
  22. a b Da Ambizioni perdute di un presidente, Corriere.it, 12 agosto 2013.
  23. Da Armi democratiche, Corriere.it, 1 settembre 2013.
  24. Da I terroristi che sono tra noi, Corriere.it, 27 settembre 2014.
  25. Da L’AMICIZIA DEGLI OPPOSTI JULIUS EVOLA E SCHEIWILLER, corriere.it, 14 ottobre 2014.
  26. a b Da Una guerra che non va perduta, Corriere.it, 11 gennaio 2015.
  27. Da Il groviglio di Obama, Corriere.it, 10 settembre 2015.
  28. a b Citato in Siria. Romano: «Obama si oppone ad Assad a tutti i costi perché è ideologico», Tempi.it, 2 ottobre 2015.
  29. a b c d Citato in «Gli attentati di Parigi sono il contrattacco dell'ISIS», intervista a Sergio Romano, Sulromanzo.it, 19 novembre 2015.
  30. Da L'illusione di un ponte per Aleppo, Corriere.it, 13 agosto 2016.
  31. Citato in Sul nuovo ruolo della Russia, un commento di Sergio Romano, Treccani.it, 3 novembre 2016.
  32. Citato in L'alleanza effimera dei populisti, Corriere della Sera, 24 gennaio 2017, pp. 1 e 26.
  33. a b c Da Ma non bisogna dimenticare che in Siria le guerre sono due, Corriere.it, 12 aprile 2017.
  34. Da La sindrome bonapartista dei francesi, Corriere della Sera, 19 giugno 2017.
  35. Da L'illusione inglese: un mondo senza ayatollah, Corriere.it, 29 settembre 2017.
  36. Rispondendo a un lettore preoccupato dell'attendibilità di Wikipedia, il quale citava una versione vandalizzata della voce Sergio Romano contenente opinioni personali e accuse di fascismo.
  37. Terza guerra d'indipendenza.
  38. Seconda guerra d'indipendenza.

Bibliografia

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  • Sergio Romano, I volti della storia. I protagonisti e le questioni aperte del nostro passato, Rizzoli, 2001.
  • Sergio Romano, Libera Chiesa. Libero Stato? Il Vaticano e l'Italia da Pio IX a Benedetto XVI, Longanesi, 2005. ISBN 8830423203
  • Sergio Romano, Le altre facce della storia: Dietro le quinte dei grandi eventi, Bur, 2010. ISBN 8858623258
  • Sergio Romano, Putin e la ricostruzione della grande Russia, TEA, Milano, 2017. ISBN 9788850248421
  • Sergio Romano, Storia d'Italia dal Risorgimento ai nostri giorni, il Giornale Biblioteca storica, Milano, 2010.

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