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Robert Hughes

critico d'arte e saggista australiano

Robert Studley Forrest Hughes (1938 – 2012), critico d'arte e saggista australiano.

La cultura del piagnisteo

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  • Anche le arti popolari, già meraviglia e delizia del mondo, sono decadute; c'è stato un tempo, a memoria di alcuni di noi, in cui la musica popolare americana era esaltante, struggente, spiritosa, e seduceva gli adulti. Oggi, al posto della cruda intensità di Muddy Waters o della vigorosa inventiva di Duke Ellington, abbiamo Michael Jackson, e da George Gershwin e Cole Porter siamo scesi a musical da analfabeti, che parlano di gatti o della caduta di Saigon. Il grande rock-'n'-roll americano si è super tecnologizzato e, passato nel tritacarne delle corporations, è diventato al 95% un prodotto sintetico. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, p. 21)
  • Nella società, come in agricoltura, la monocultura funziona male. Impoverisce il terreno. La ricchezza sociale dell'America, che tanto colpisce il forestiero, deriva dalla diversità delle sue tribù. La sua capacità di coesione, di trovare un qualche comune accordo sul da farsi, deriva dalla disposizione di quelle tribù a non trasformare le loro differenze culturali in barriere e bastioni insormontabili, a non fare un feticcio dell'«africanità» o dell'«italianità» (che le mantengono distinte), a spese dell'americanità (che invece dà loro un vasto terreno comune). Leggere l'America è come esaminare un mosaico. Se si guarda l'insieme non se ne scorgono le componenti, le singole tessere, ognuna di colore diverso. Se ci si concentra sulle tessere, si perde di vista il quadro generale. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, pp. 30-31)
  • Nel femminismo americano c'è un'ampia frangia repressiva, autocaricaturale e spesso di una piccineria abissale, come la squadra accademica di polizia-del-pensiero che recentemente è riuscita a far togliere da un'aula dell'Università di Pennsylvania una riproduzione della Maya desnuda di Goya. E ci sono puritane demenziali come la scrittrice Andrea Dworkin, che giudica ogni rapporto sessuale con gli uomini, per quanto consensuale, una forma politicizzata di stupro. Ma questo sminuisce forse, in qualche modo, la fortissima aspirazione di milioni di donne americane ad avere parità di diritti con gli uomini, a essere libere da molestie sessuali sul posto di lavoro, a vedersi riconosciuto il diritto, in materia di procreazione, di essere prima persone e poi madri? (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, pp. 48-49)
  • Il successo di McCarthy consisté nell'aprire le cateratte del monismo americano, la lungamente accumulata intolleranza nativista per la diversità; e nel farla entrare in gioco sul terreno specificamente ideologico dello scontro tra comunismo e democrazia liberale proprio nel momento in cui l'America prendeva le armi contro un paese comunista, la Corea del Nord. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, p. 69)
  • Più che un movimento politico, il maccartismo fu una Crociata dei Fanciulli, un evento irrazionale semireligioso. Tanto il suo successo iniziale quanto il suo collasso finale furono dovuti alla vaghezza dei bersagli, alla loro carenza di corpi e di nomi. Il maccartismo, opportunista per natura, difettava di messa a fuoco. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, p. 69)
  • Quando gli assedianti di una clinica dove si pratica l'aborto dichiarano di essere «per la vita», possiamo essere certi che ad angustiarli non è quella della spaurita adolescente incinta; e in gioco non è tanto la sopravvivenza del feto, bensì la misura del controllo maschile sul corpo delle donne che questa società è disposta a concedere. (Prima conferenza. Cultura in un corpo civile lacerato, p. 70)
  • Questa usanza retrospettiva di giudicare gli scrittori in base alla loro presunta capacità di migliorare la coscienza sociale sarà forse una disdetta per lo snobistico Proust e il demoralizzante Leopardi, per l'intimista Henry James e per un figlio del privilegio borghese come Montaigne, ma lo è anche di più per gli studenti, che ne cavano l'impressione che il modo giusto di affrontare un testo sia di misurarlo alla svelta col politicometro, per poi dare la stura a un fiotto di stereotipi moraleggianti. (Seconda conferenza. Multicultura e malcontenti, p. 140)
  • Oppressione è ciò che facciamo in Occidente; ciò che fanno in Medio Oriente è «la loro cultura». (Seconda conferenza. Multicultura e malcontenti, pp. 141-142)
  • È in campo storico, che la correttezza politica ha riportato i suoi maggiori successi. (Seconda conferenza. Multicultura e malcontenti, p. 143)
  • Il razzismo dimostrato dagli storici tradizionali dell'Ottocento e del primo Novecento nel trattare delle culture dell'Africa è terrificante. I più, fra loro, non credevano che le società africane avessero una storia degna di essere raccontata, o anche solo di essere oggetto di ricerca. Il catalogo delle citazioni sarebbe interminabile, ma ne basti una per tutte, da Arnold Toynbee, in A Study of History: «Se classifichiamo l'umanità per colore, l'unica tra le razze principali ... che non abbia dato un singolo contributo creativo a nessuna delle nostre ventuno civiltà è la razza negra». (Seconda conferenza. Multicultura e malcontenti, p. 163)
  • La bellezza americana, molto più che nella cultura, risiedeva nella natura. Così all'americano intelligente, se aveva modo di visitare l'Europa, accadeva di subire, grazie a una sorta di lampo pentecostale, un'istantanea trasformazione del gusto davanti a un singolo monumento antico; come fu per Jefferson alla vista della Maison carrée di Nîmes, il tempio romano che plasmò il suo concetto dell'architettura pubblica. Un'ora con la Venere Medici a Firenze o con l'Apollo del Belvedere in Vaticano poteva soverchiare tutta l'esperienza estetica precedente del grezzo figlio della nuova repubblica. E l'inesperienza dotava le opere inglesi o europee di una prodigiosa autorevolezza. (Terza conferenza. La morale in sé: arte e illusione terapeutica, p. 202)
  • Nel 1991 uscì su «Art in America» una perla di intervista a Karen Finley, in cui questa artista della performance, ex cattolica, dichiarava che la misura della sua oppressione in quanto donna era che lei non aveva nessuna possibilità, non una al mondo, di diventare papa. E lo diceva seriamente. Difficile immaginare un esempio più lampante dell'egocentrismo dell'artista-vittima. Sono anch'io un ex cattolico, e il pensiero di questa ingiustizia non mi ha trovato insensibile. Ma pensandoci su, sono giunto alla conclusione che c'è in realtà una ragione per non ammettere Karen Finley al papato. Il papa è infallibile solo in certe occasioni, quando parla ex cathedra di questioni di fede e di morale. Questa artista della performance, nel radicalismo del suo rango di vittima, è infallibile sempre. E nessuna istituzione, neanche antica e scaltrita come la Chiesa cattolica, potrebbe reggere il peso dell'infallibilità permanente del suo capo. (Terza conferenza. La morale in sé: arte e illusione terapeutica, p. 219)

Bibliografia

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  • Robert Hughes, La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto (The Culture of Complaint), traduzione di Marina Antonielli, Adelphi Edizioni, Milano, 2003. ISBN 88-459-1785-1

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