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Igor Man

giornalista italiano (1922-2009)

Igor Man, pseudonimo di Igor Manlio Manzella (1922 – 2009), giornalista italiano.

Igor Man nel 2005

Citazioni

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Anni sessanta

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  • Il Negus da vicino appare incredibilmente minuto e fragile, quasi diafano. La caratteristica barbetta ben curata incornicia un viso ascetico, d'un bronzeo colore antico; gli occhi, scuri e penetranti, mi fissano benevoli.[1]
  • La voce dell'Imperatore ha caldi toni di gola, il suo discorso è semplice e diretto come solo può esserlo quello di un uomo complesso e impenetrabile.[1]
  • Povero dottor Quat, così energico e attivo, pieno di buona volontà, caparbio persino: dà fastidio a tutti, appunto perché è un moderato.[2]
  • Per dodici milioni di contadini, che sono il paese reale, la guerra è morte e distruzione: per i saigonesi si riduce alla presenza degli americani, e finché ci resteranno, essi avranno di che vivere: lavorando, intrallazzando o mendicando. Nell'ora dei pasti Saigon viene attraversata da famelici cortei di donne e ragazzi armati di lattine-gavette, che corrono verso gli insediamenti americani e i grandi ristoranti, decisi a contendersi ogni possibile rifiuto di cibo.[3]
  • I soldati americani approdano a Saigon solo desiderosi di stordirsi; sanno di non trovarsi fra amici, riducono i contatti coi vietnamiti al minimo indispensabile. E i vietnamiti li sfruttano rabbiosamente, dietro i loro sorrisi non v'è odio. La popolazione vietnamita non può curarsi della difesa del mondo libero, pel semplice motivo che da venticinque anni non ha avuto che disastri, guerre, umiliazioni. Per la maggioranza dei vietnamiti, la presenza americana significa soprattutto che «il bianco uccide il giallo».[3]

La Stampa, 31 gennaio 1965

  • Il Bung incarna le doti e i difetti del nazionalismo asiatico: ingenuamente orgoglioso della tradizione storica, abbastanza cinico per non curarsi troppo dei bisogni del popolo, Sukarno è un misto di astuzia e di tracotanza, di calcolata prudenza e di irrazionale aggressività.
  • Quando un orientale è in imbarazzo, sorride; Sukarno fa di più, scoppia in una risata di gola.
  • «Gli indonesiani non stanno male», sostiene Sukarno: questione d'intendersi: egli vuol dire che la gran massa della popolazione continua a vivere come ha fatto durante 300 anni, cioè miserevolmente. Tutti gli altri – ufficiali, funzionari e ministri – egli permette che si arrangino, stanno bene. Son costoro che contano, ed egli intende servirsene per «partecipare all'edificazione di un nuovo mondo, d'un ordine nuovo!»

in La Stampa, 18 febbraio 1965

  • Kuala Lumpur è un esempio vivo di work in progress: insieme con una saggia urbanistica nasce e s'afferma una nuova classe tecnocrati, progredisce la classe politica, la donna accentua la sua emancipazione. La città è lo specchio fedele di un «miracolo economico» che ha saputo armonizzare l'iniziativa privata con la programmazione statale.
  • Il tunku Abdul Rahman è un gentiluomo di 62 anni con un allegro passato di play-boy (studente di Cambridge stabilì il «record universitario» di 63 infrazioni al traffico), gli piace la buona tavola, adora il golf, i cavalli, i cani, colleziona pugnali preziosi.
  • Tollerante, generoso, espansivo, il tunku è il capo ideale per la politica di armonia razziale che è alla base del programma del suo governo.
  • Il gentiluomo che mi ha ricevuto nella sua semplice residenza di Kuala Lumpur, mi è apparso combattuto tra la speranza e la disillusione, tra la preoccupazione e l'ottimismo ad ogni costo. Più che di una intervista si è trattato dello sfogo di un uomo pieno d'amarezza.

La Stampa, 16 novembre 1965

  • L'esistenza dei sud vietnamiti è la stessa dei tempi della dominazione cinese, se non peggiore, dal momento che alla millenaria miseria si aggiungono ora i bombardamenti a tappeto, che fatalmente mietono vittime innocenti e distruggono le coltivazioni.
  • Saigon con la sua corruzione, con la sua permanente rissa politica non è il Vietnam; il paese reale sono dodici milioni di contadini cui da tempo immemorabile il governo centrale si è mostrato sotto l'aspetto di amministratori locali disonesti, di sbirri prepotenti, di soldati incanagliti dalla lunga guerra; e l'uomo bianco, durante il colonialismo, è apparso ai contadini il protettore, se non l'istigatore, dei portatori di balzelli.
  • In tutti questi anni di generosi sforzi, di ingenti aiuti e di immancabili errori, gli americani son rimasti isolati dal popolo vietnamita perché nessun governo ha mai potuto, o voluto, far loro da intermediario, laddove senza il consenso della popolazione diviene problematico anche pel più forte esercito del mondo esercitare un fruttuoso sforzo bellico.
  • Il terreno dove il Vietcong combatte e afferma la sua lotta politica, aiutato dagli orrori della guerra e dalla proterva insipienza del governo centrale, sono le regioni rurali, i villaggi che forniscono la maggior parte dei combattenti delle due parti e purtroppo soffrono le più pesanti perdite umane, condizionati, come sono, dai guerriglieri e bombardati dai governativi; spesso costretti a pagar tasse ed a fornir viveri e agli uni e agli altri.

La Stampa, 30 novembre 1965

  • Giorno dopo giorno, inesorabilmente, la guerra continua a stravolgere il Vietnam. Muoiono gli uomini, soldati e civili, bambini, donne, vecchi e con loro muore la pietà, ogni giorno un po' di più. Un vietnamita su due ha meno di venticinque anni, il che significa che è nato e vissuto in tempo di guerra (il conflitto è cominciato nel 1941, con l'occupazione giapponese), che potrebbe morire domani o al fronte o per la strada, dovunque, perché questa guerra è senza misericordia, non conosce santurari.
  • «Libertà» è purtroppo diventata una parola vuota di significato per i vietnamiti. La fine del colonialismo non ha infatti mutato le condizioni di vita di dodici milioni di contadini, che sono il paese reale: ai francesi si sono sostituiti dittatori civili come Diem, o militari come il generale Khan; la stessa burocrazia corrotta di sempre ha continuato a fare il bello e il cattivo tempo; corruzione, intrallazzo, soperchierie, rissa politica, nepotismo hanno caratterizzato gli innumerevoli governi di Saigon. Così per contrasto, hanno aureolato di perfezione lo «Stato-campione» creato dal Vietminh venti anni fa nella regione centro-settentrionale del Vietnam del Sud.
  • Che cosa possono il sacrificio di pochi americani generosi, la distribuzione di saponette, di fertilizzanti, di caramelle, di palloncini colorati di fronte alla spocchia del capo-distretto nominato da Saigon; che vale, per l'opinione della massa vietnamita, eseguire difficili interventi chirurgici, assistere i lebbrosi se, poi, un bombardamento diretto contro i guerriglieri in effetti distrugge i villaggi e uccide innocenti?

Anni settanta

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  • [Su Haile Selassie] Un aristocratico moderato e saggio, che in virtù della sua forza carismatica è riuscito ad imbastire, ma non ad unire, i diversi gruppi etnici che compongono l'impero.[4]
  • [Su Mohammad Reza Pahlavi e la Celebrazione dei 2500 anni dell'Impero Persiano] L'imperatore spende 60 miliardi di lire per la festa di Persepoli: è la celebrazione, da parte di un parvenu, di 2500 anni di monarchia iraniana.[5]
  • [Sulla vita nello Stato Imperiale dell'Iran] Il venti per cento più ricco degli iraniani fagocita il sessanta per cento del reddito nazionale; il venti per cento più povero si spartisce il cinque per cento.[5]
  • Lo Scià se ne va lasciando i suoi fidi (e i suoi complici) nel marasma più totale. Nei suoi trentasette anni di regno si è avuto un morto ogni quarantotto minuti. Quattromilanovecento sono i giustiziati, centoventicinquemila i prigionieri politici e i morti assommano a 365.995. Se ne va lasciandosi indietro una scia sanguinosa e un castello di sogni infranti che si compendiano a queste date. 1963: varo della «rivoluzione bianca»; 1973: lancio dei piani per una industrializzazione accelerata che deve trasformare l'Iran in una potenza mondiale; 1977: la produzione cade, l'inflazione divora salari e stipendi, aumenta la disoccupazione, comincia a serpeggiare la rivolta che scoppia nell'estate del 1978.[6]

La Stampa, 8 marzo 1970

  • [Su Muʿammar Gheddafi] Da quando ha preso il potere, i libici non sono più considerati «schiavi degli schiavi». Appaiono trasformati. Ci sono sempre i ricchi e i poveri in questo paese aspro e immenso, ma ogni complesso d'inferiorità sembra definitivamente scomparso, i libici si sentono tutti imazighen, «uomini liberi»: non più schiavi, ma protagonisti.
  • A rendere il personaggio inquietante è proprio la sua convinzione d'essere un predestinato.
  • Il suo sorriso disarmante da buon ragazzo incanta la gente. I giovani, le donne lo adorano, i «tristi» lo temono. Sogna una Libia puritana, ligia ai voleri di Maometto; postula un socialismo islamico che consenta a tutti di beneficiare in parti eguali dell'immensa ricchezza del petrolio.
  • Venera Nasser, il padre illuminato, ma confida in Arafat e appare deciso a sacrificare ogni risorsa della Libia per il trionfo della causa palestinese.

La Stampa, 3 settembre 1977

  • L'uomo della strada non ha dimenticato come nel 1973, nonostante i servizi segreti insistessero nell'avvertire Dayan che egiziani e siriani stavano ammassando le loro forze, verosimilmente per scatenare la guerra contro Israele, il generale si mostrasse convinto ch'era tutta una finta, manovre per turbare la imminente festa del Kippur.
    Non ha dimenticato come il 6 ottobre 1973 al drammatico annuncio: «È scoppiata la guerra!», Dayan, il «David reincarnato», l'«uomo che può tutto», crollasse sopraffatto dallo sgomento. L'eroe della guerra dei sei giorni (che in realtà fu vinta grazie ai piani apprestati da Rabin) propose subito la ritirata generale e di concentrare tutte le forze disponibili per difendere i punti vitali di Israele.
  • [Sull'autobiografia di Moshe Dayan] Se Begin, come è stato detto, crede solo in Dio e in sé stesso, Dayan crede solo in Dayan. E questa sua «vita», narrata con piglio tacitiano, testimonia della profonda stima e considerazione che Dayan ha per il personaggio ch'egli è riuscito a fare di sé stesso con pazienza e ostinazione e non senza coraggio. Ma è forse proprio la «presunzione» (la tracotanza addirittura) a rendere affascinante il libro di Dayan, uno spaccato straordinario della favolosa e tormentata storia di Israele vista da un uomo che si è fatto da sé, un «solitario» come lo fu Ben Guiron.
  • Se come storico, soprattutto di sé stesso, Dayan è discutibile, come scrittore si rivela pregevole e robusto.

Anni ottanta

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  • Ossessionati dalla dottrina della sicurezza nazionale, i generali hanno seminato il terrore. I militari «moderati» entrati nella Casa Rosada senza colpo ferire, il 24 marzo del 1976, attesero solo nove giorni prima di far scattare il terrore: sfidati dallo spontaneismo infantile della guerriglia, proclamarono la «guerra santa» contro la «sovversione comunista». Attenti a non ripetere apertamente gli orrori di Pinochet, scatenarono un'ondata di arresti clandestini colpendo a destra e a manca i cosiddetti quadri intermedi. Di fronte alla reazione armata, seppur disorganica, di quel che rimaneva della sinistra rivoluzionaria, aprirono successivamente il fuoco sulle piazze, sacrificando alla furia dei soldati, dei mercenari armati dalla grande borghesia compradora, tutti coloro che rifiutavano il Gott mit uns.
    La «guerra santa» prende la mano al moderato generale Videla che era stato presentato all'opinione pubblica come un cattolico convinto, preoccupato di portare in tempi brevi il Paese alla normalità democratica. Diventa la «guerra sudicia» all'insegna della violencia.[7]
  • Se Alfonsín riuscirà a far capire agli argentini cos'è la democrazia, avrà vinto una delle più grandi sfide della storia di tutta l'America Latina.[7]

La Stampa, 19 luglio 1983

  • La natura del fenomeno peronista è tuttora oggetto di polemica. Il peronismo fu (o lo è?) per molti soprattutto Perón, per altri una versione criolla del fascismo, una forma di socialismo cristiano, una formula nazionalista sociale mutuata dal nazionalismo maurassiano e ancora: una dittatura demagogica, un presidenzialismo plebiscitario, una democrazia operaia, un socialismo di Stato, una dittatura del benessere, un capitalismo nazionale, un collettivismo non marxista, una dittatura di masse, una forma di bonapartismo alla Napoleone III o di neobismarkismo o, finalmente, una versione originale del populismo latino-americano.
  • Dal 1946 al 1955 durante la sua prima e unica vera dittatura, Perón, a dispetto di una confusa ideologia, era riuscito, come suol dirsi, a risvegliare le masse. Aveva varato una completa legislazione del lavoro. Per la prima volta nella storia dell'Argentina, gli operai e i peones avevano avuto orari di lavoro umani, ferie pagate, licenze matrimoniali, tredicesima mensilità, assistenza malattie, pensioni ecc.
  • Il peronismo è, tutto sommato, un movimento «gregario». Senza un leader carismatico che si sbracci dal balcone della Casa Rosada, un simile movimento si sente perduto.

La Stampa, 1 novembre 1983

  • Raul Alfonsín ha trionfato: è la seconda disfatta dei militari, un'altra guerra delle Malvinas perduta, stavolta sul fronte politico. Il patto segreto fra generali e peronisti è stato seppellito nelle urne dalla marca di voti radicali, ma potrebbe anche resuscitare in un futuro più o meno prossimo; è questo il pericolo che Alfonsín e il suo partito dovranno scongiurare per dare un senso storico alla clamorosa vittoria elettorale.
  • Per il peronismo è il tracollo, potrebbe essere addirittura un'ecatombe che colpirà quasi di certo il suo vertice, un vertice essenzialmente sindacale. La sconfitta del peronismo conferma che il suo dominio della scena politica argentina durante circa 40 anni si dovette unicamente al magnetismo di un «lider carismatico», oggi morto per sempre.
  • Non sarà facile promettere «lacrime e sudore» a un popolo piagato dal pauperismo. Non sarà facile, soprattutto, integrare l'Argentina al resto dell'America Latina, nel segno della rinascita, con i militari in caserma, non a perseguitare i cittadini.

La Stampa, 14 aprile 1985

  • [Sulla seconda guerra civile in Sudan] La guerra contro la guerriglia costa a Khartum 300 mila dollari al giorno ed è una guerra frustrante perché condita di scacchi e umiliata da continue diserzioni.
  • C'è una parola chiave per cogliere il quid del conflitto Nord-Sud. Questa parola è: schiavitù. Il Sudan è uno stato artificiale creato attaccando con mastice di sabbia due regioni profondamente diverse sul piano della storia e della geografia, dell'etnia. Tra il Nord e il Sud non esistono, a parte il Nilo, elemento di continuità, di coesione. Al Sud vivono cinque milioni e mezzo di africani puri, cristiani-animisti. Al Nord ci sono 16 milioni di arabi o negri arabizzati, tutti musulmani.
  • [Sulla prima guerra civile in Sudan] Quando alla fine del 1955 le truppe di sua Maestà britannica se ne partirono, esplose la guerra civile. I ribelli del Sud si chiamavano anyanya, dal nome di un serpente velenoso, il loro emblema. Combattevano come consumati guerriglieri e tennero testa durante 17 anni all'esercito regolare. Interi villaggi distrutti, massacri di gente inerme.
  • Definito da commilitoni e studenti «un uomo tranquillo» per il suo fisico pacioso, per il viso ornato da un'accurata barba, Garang era rimasto in realtà con dentro il sangue la boscaglia, la guerriglia.
  • Garang diviene presto famoso come guerrigliero e come leader politico. Il suo programma piace perché ecumenico. Egli infatti è contro la secessione, auspica un Sudan unito. Ma come far convivere pacificamente 597 tribù che parlano 93 lingue o dialetti diversi? Garang postula una formula vincente: democrazia, socialismo: laicismo. Lo Stato sarà separato dalla chiesa e dalla moschea; i profittatori verranno messi ai margini della società, le ricchezze equamente distribuite senza discriminazioni razziali o confessionali.

La Stampa, 17 settembre 1985

  • Si chiama Luanda dal nome degli antichi abitanti do Cabo, gli axiluanda ovvero lanciatori di reti. Tanto tempo prima che sgorgasse il petrolio, quando il caffè non era ancora stato piantato e coi diamanti forse giocavano i bambini, Luanda era un grande villaggio di pescatori, un angolo felice del vasto reame del Kongo.
  • [Sulla Guerra d'indipendenza dell'Angola] Le popolazioni locali diedero sempre filo da torcere ai portoghesi. Con commovente orgoglio i giovani dirigenti della Repubblica popolare d'Angola ti dicono d'avere «la resistenza nel sangue». In fatto in quel territorio, grande quattro volte l'Italia, i portoghesi stentarono a imporsi.
  • Oggi l'Angola è un Paese gravemente ferito che lotta per sopravvivere, un posto nel mondo dove non c'è nulla da comperare e spesso mancano i soldi per acquistare codesto nulla. Un Paese dove gli impieghi, il laovoro sono meschini e l'assenteismo una regola. È l'Angola a vederlo, caotico e guasto così come i portoghesi e i loro bianchi protettori, americani e sudafricani, avevano previsto sarebbe diventato se lasciato in mano ai nativi.
  • [Sulla Repubblica Popolare dell'Angola] Un Paese strangolato economicamente dall'Urss (gli aiuti di Mosca si pagano cash e in valuta) e che riesce a sopravvivere solo in forza dei contratti con la lobby petrolifera degli Stati Uniti d'America.

Anni novanta

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  • Panem et circenses, si diceva una volta: in Somalia Siad Barre offre al popolo questi ultimi soltanto.[8]
  • Mohammed Siad Barre, presidente despota, detto «Bocca larga» perché straparla con una bocca effettivamente larga ma anche perché la gente lo accusa d'aver mangiato a quattro palmenti nella greppia degli aiuti. A tutto beneficio del suo clan, quello dei Marehan.[9]
  • C'era una volta, in Somalia, una borghesia. Eravamo stati noi italiani, giusta il mandato delle Nazioni Uniti, a crescerla. Quella borghesia somala aveva partorito una classe dirigente. Non estremamente capace, forse, e nemmeno assolutamente onesta. Ma funzionava. Poi «haf-wuem», bocca grande, lui, Siad Barre, aprì la Somalia ai russi in cambio d'un pugno di moschetti (obsoleti ma comunque mortali) e i sovietici distrussero quella modesta borghesia, quella mediocre classe dirigente. E allorché Siad Barre chiuse coi russi per riaprire una nuova partita con l'Occidente, con l'Italia, in Somalia non c'erano più quadri e fu lui, con la sua tribù, a reggere il Paese. Coi risultati che sappiamo.[10]
  • Il fatto è che il generale Aidid ci odia. Odia gli italiani, tutti. Peggio: il generale esprime il sentimento di buona parte dei somali. Non tutti, certamente. C'è gente a Mogadiscio che ci aspetta. Ma è gente vecchia, stanca, disperata. Non conta nulla. Non fa opinione. Sono altri a contare. Sono i morian, i ragazzi guerriglieri che hanno saccheggiato due volte la nostra ambasciata. Sono loro che contano.[11]
  • [Su Mohammed Farah Aidid] Razzia gli aiuti per rivenderseli, condannando così due volte a morte per fame i suoi confratelli.[11]
  • [Su Mohammed Farah Aidid] Già tenente di fanteria addestrato a Cesano dagli italiani, complice di Barre che lo nomina generale e dal quale si stacca, rivoltandoglisi contro, Giuda non da trenta dinari ma da 300 mila dollari, quando il vento spira contro «haf-wuem», bocca grande, cioè Siad Barre.[12]
  • Adesso è chiaro che se un Pisciotta somalo non spara in fronte ad Aidid, costui continuerà a latitare irridendo i caschi blu.[12]
  • [Su Umberto Bossi] Oggi, come nel secolo XIX, l'occidentale medio, che il senatur interpreta con facilità stupefacente, è molto ignorante della storia e della cultura dell'Islam. Cerca, oggi come ieri, punti di riferimento nella sola cultura occidentale. Non trovandoli, conclude che l'Islam non può che produrre «società chiuse e retrograde». Barbare, incivili; «terrone», in definitiva. Un simile approccio (si fa per dire) con l'Islam è frutto di quello che il filosofo cristiano Louis Gardet chiama «colonialismo intellettuale». Verosimilmente il Bossi crede, in buona fede, presumo, che Islam e integralismo islamico siano la stessa cosa. Che i selvaggi attentati degli integralisti egiziani, tanto per fare un esempio, siano espressione d'una cultura barbara. Che il somalo Aidid sia un grassatore violento in quanto musulmano. In realtà Aidid è un mascalzone e basta. Invoca Allah e resuscita gli spettri del colonialismo così come le SS proclamavano «Gott mitt Uns» per affermare «il diritto alla vita dei soli ariani». Al pari dei sovietici che han tradito Marx durante 70 anni, gli integralisti (quelli egiziani in testa) bestemmiano il messaggio unitario e tollerante di Maometto.[13]
  • Suharto ha lasciato la carica, o, meglio, l'ha perduta sotto la spinta popolare sulla quale s'è innestata, vigorosa, la pressione della Casa Bianca. Il potere, tuttavia, non l'ha perduto, lui, il dittatore affarista che durante 32 anni ha trasformato l'Indonesia in una multinazionale asiatica e il governo in un consiglio di amministrazione.[14]
  • Suharto, che si è immedesimato nel personaggio del saggio re giavanese Madjapahit (XIV secolo) e che ama farsi chiamare dai gazzettieri di regime il Grande Vecchio di Giava, a chi gli rimproverava una dittatura personale, una «cleptocrazia», ha sempre risposto: «In Indonesia siamo tutti una famiglia». Per quanto lo riguarda, certamente sì: i Suharto Boys, vale a dire i suoi figli (in numero di cinque), si spartiscono la ricchezza vera del paese, ma gli altri, tutti gli altri, vale a dire la stragrande maggioranza della popolazione, si spartiscono un'immensa miseria.[15]

La Stampa, 22 maggio 1991

  • [Sulla guerra d'Etiopia] La vincemmo coi gas e tuttavia il nostro colonialismo, laggiù, in Etiopia, non fu straccione né predone, fu un colonialismo dal volto umano. Tant'è che a salvare gli italiani dall'ira del vincitore britannico, fu proprio lui, Hailé Selassié, il Negus Neghesti sbertucciato dal suo impero.
  • Hailé Selassié, un vecchio signore aristocratico dalle mani bellissime e dall'ironia flagellante, non era uno stupido. I cinque anni di dominio italiano avevano dato all'Etiopia una organizzazione amministrativa che non aveva mai avuto e lui, il Negus, la conservò com'era. [...] Sapeva che se gli italiani se ne fossero andati via tutti, non ci sarebbe stata più una nuova Etiopia. Ma l'Etiopia era rimasta vecchia e i giovani intellettuali dicevano che non sarebbe mai diventata nuova finché fosse rimasto lui a comandare, un vecchio che credeva nella Bibbia mentre loro avrebbero fatto nuova l'Etiopia in un battibaleno.
  • Gli etiopi, si sa, non sono negri, ma Menghistu ha invece tratti negroidi. [...] Per scaricare il complesso d'inferiorità accumulato nella rigida società amharica, Menghistu durante 14 anni regnerà nel segno del terrore e del fasto, governando dal Palazzo del vecchio Negus dove ha mandato i paggi in livrea, i leoni al guinzaglio, le Cadillac e lo champagne, l'uso dei titoli: il suo è lungo 57 parole, una in più di quello di Hailé Selassié.

La Stampa, 8 luglio 1993

  • Una nazione orfana, un Paese che non c'è: ecco i curdi. Un popolo di venticinque milioni di persone vissute sempre nel loro territorio d'origine e tuttavia senza patria. Il Kurdistan, infatti, non esiste ufficialmente, è soltanto un'espressione geografica che neppure tutte le mappe riportano. Una disgrazia antica, quella dei curdi. E tuttavia, da secoli, essi sono vissuti sempre là, nel loro territorio, con una lingua propria, con una musica e una poesia bellissime. I curdi sono musulmani ma non arabi, sono di ceppo indopersiano, insomma sono ariani. Ecco, ariani della montagna.
  • Forse qualche lettore ricorderà il massacro di Halabja, il 18 di marzo del 1988: cinquemila persone morirono nel volgere di quaranta secondi a causa d'un blasfemo cocktail di gas: il cianuro, il nervino, l'iprite. Quella strage fu immortalata da un occasionale cinereporter: i bambini, le donne, i vecchi fulminati mentre stanno varcando l'uscio di casa, mentre giuocano. Una nuova Pompei. Provocata dalla cosiddetta «campagna di arabizzazione» voluta da Saddam Hussein nel segno dell'odio e della vendetta.
  • La passione dei curdi per i panni multicolori è tale che si racconta la storia d'un bandito al quale fu chiesto di esprimere la rituale ultima volontà. Senza neanche pensare troppo: «Gradirei venire impiccato con una corda rossoverde», rispose il bandito.

La Stampa, 4 ottobre 1998

  • Il terrorismo islamista è senz'altro una realtà terribile, così come lo è il terrorismo (annoso) nordirlandese, o quello dell'Eta per citare i più noti. Tuttavia ad allarmarci è soprattutto quello islamista. Verosimilmente perché in questo camposi hanno molte notizie ma poche informazioni serie, il che genera confusione. E confusione eccita la paura.
  • Non esiste una «internazionale del terrore», così come non esiste una armata islamica tesa alla distruzione dell'Occidente cristiano. I vari gruppi hanno nemici diremo istituzionali: Osama odia la casa reale saudita colpevole, egli afferma, di offendere il dettato di Maometto essendosi alleata con gli Stati Uniti. (Da qui gli attentati anti americani di Nairobi e di Dar es Salaam). I gruppi egiziani ce l'hanno con un governo che giudicano corrotto, così come i terroristi della Gia combattono quegli algerini (civili o militari) che secondo loro rifiutano la Repubblica Islamica d'Algeria. E sempre in nome dell'Islam lo sceicco sudanese al Turabi si propone guida spirituale del cosiddetto «terrorismo irredentista». Ci sono poi i Taliban dell'Afghanistan, già al soldo della Cia quando si trattava di espellere da Kabul la rossa armata sovietica. Ma l'Afghanistan dei Taliban (che impongono un islam straniero mutuato da una delle 72 sette pakistane) è a ben vedere una specie di vassallo del Pakistan.
  • Per sconfiggerlo l'arma migliore potrebbe essere il dialogo: con l'islam autentico, quello che esporta sì i vu cumprà ma riconosce altresì la verginità feconda di Maria e suo figlio il Santo Profeta Issa. Imputare codesto islam di terrorismo, sarebbe lo stesso che dichiarar Gesù responsabile della Santa Inquisizione.
  • Per quanto riguarda il vecchio cronista, a preoccuparlo seriamente è l'imperversare della camorra, non un terrorismo estraneo a una grande religione monoteista, e destinato fatalmente a suicidarsi non solo politicamente.

Anni 2000

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  • [Su Osama bin Laden] Al pari di tutti gli arabi in generale, di quelli più coltivati in particolare, Osama non grida. I suoi messaggi sono pronunciati pressoché sottovoce, in falsetto; sono le parole ad essere incendiarie; i semplici concetti ch'egli esprime, con una sorta di raggelante understatement tutto orientale, hanno sui suoi adepti l'effetto di una scarica di adrenalina ovvero d'una iperdose di eroina.[16]
  • Analisti di quattro importanti Paesi occidentali si sono rotti a lungo la testa per capire se tra Osama o, meglio, i taleban che lo ospitano, lo proteggono, e i mujaheddin di Massud intercorresse una sorta di «armistizio religioso». Infine han concluso che la rivalità fra i taleban e i guerrieri di Massud poteva definirsi senz'altro «un odio profondo alimentato da un opposto modo di seguire i precetti dell'islam».[17]
  • Massud, questo combattente, a suo modo, della libertà fu certamente un musulmano corretto, con una macchia tuttavia. Gli domandarono un giorno come vedesse il ruolo della donna nella società islamica, in quella afghana in particolare dove la donna è costretta a celarsi in una specie di armatura ed è un nulla. «Io difendo i diritti della donna», rispose: «Le donne possono lavorare, possono e debbono frequentare le scuole alla pari dei maschi». Ma sua moglie, gli fu osservato, indossa lo stesso mortificante costume medievale imposto dai Talebani alle donne afghane. «È il costume nazionale», rispose e sorrise, e ridacchiò Massud. Quando un orientale, eroe o non, fa così è segno ch'è imbarazzato. Cosa che, a quanto dicono, non succede mai al freddo, essenzialista leader dei terroristi suicidi: Osama bin Laden, universalmente indicato come il «nemico numero 1» dell'Occidente cristiano.[17]
  • [Sulla crisi del teatro Dubrovka] Ma come mai e perché nel commando ceceno militavano ben diciotto donne cinte di cartucciera zeppa di tritolo? Nella società islamica dove il ruolo della donna è marginale, il fenomeno delle terroriste che si uccidono per uccidere è abbastanza recente; a ben pensarci è un fenomeno postmoderno che ha brutalizzato l'ideologia nazionalistica. Ebbene, la presenza di quelle diciotto vedove nere cecene, tutte belle, giovani, qualcuna visibilmente terrorizzata, risulta anacronistica. In Cecenia l'islam arriva grosso modo solo nell'800 e soltanto nei '90 subisce una forte accelerazione. Quella società islamica non può dunque non essere tradizionale sicché il posto delle diciotto poverine «doveva essere» la casa dove elaborare il lutto dividendosi tra i figli e il pianto. Invece eccole morire alla pari degli uomini di cui sono schiave: infine eguali in forza della morte chimica.[18]
  • Uomo dall'ampia visione, a Gheddafi il suo piccolo paese è andato sempre stretto anche perché la Jamahirija è il caos organizzato, dove vige una sorta di maoismo islamico che si traduce in una continua, molesta opposizione interna, affatto verbale ma in ogni caso disturbante.[19]
  • Ma perché bin Laden odia tanto gli Stati Uniti, lui che già fu coccolato da quei Servizi, e onorato in casa sua, nell'Arabia Saudita, per aver contributo con «coraggio, onore e inventiva» alla rovinosa sconfitta dei cupi talebani in Afghanistan? La vulgata pretende che Osama non perdoni agli Stati Uniti di profanare, con la loro presenza (nelle basi militari) il suolo dell'Arabia Saudita, sacro ai musulmani perché ospita la Mecca, la Medina e la Kaaba, la santa pietra nera. Sul cattivo sangue fra Osama e il Regno saudita, circola una seconda e più prosaica spiegazione. Il signorino aveva perduto la testa, il fatto che suo padre fosse un palazzinaro ricevuto a Corte e ch'egli stesso godesse della frequentazione di qualche principe di spicco (magari filoamericano – lo sono quasi tutti) gli aveva fatto perdere il senso delle proporzioni: così un bel giorno lo misero alla porta, i Principi. Deinde ira dell'Osama. Il trauma da lui subito in conseguenza dello «schiaffo» saudita ha fatto di Osama (o di chiunque, clone o no, sta in al Qaida, centrale terribile del terrorismo globale) un incubo effettivo, la pietra della discordia nel nostro Occidente cristiano.[20]
  • [Sulla guerra al terrorismo] Questa è una guerra che ridicolizza l'atomica. Soltanto un disegno comune di lavoro d'intelligence, un progetto unico di strategia confortata dallo studio incessante dell'uomo islamico e degli islamisti che ci odiano perché non hanno dimenticato il colonialismo, addirittura le crociate come s'è visto, solo una politica concertata con saggezza e prudenza, cartesianamente, e un approccio corretto con gli islamici, insomma il dialogo (ch'è ricerca del sentire altrui) possono farci vincere una guerra tutta nuova nella sua terribilità antica.[20]

La Stampa, 26 ottobre 2001

  • Gli occhi da gatta, verdi, aveva Soraya. Sembrava una donna sicura, col suo incedere davvero felino, invece la timidezza la possedeva. Fin da bambina. Bastava che le presentassero qualcuno e sul naso espressivo (non rifatto) compariva una perlina di sudore e la mano che stringeva, appena, la tua aveva il calore umidiccio dei convalescenti.
  • Venne trattata con delicatezza ma si ammalò lo stesso. Dentro. E questo perché lei non era una ragazza qualunque ma una principessa, per di più nata e vissuta in una cultura che attribuisce al sesso femminile una, mai dichiarata per altro, importanza assolutamente religiosa.
  • Fece stancamente qualche film per distrarsi ma valeva poco come attrice, frequentò anche via Veneto ma seppe non affondare nella palude banale e volgare in cui cadde un'altra principessa di sangue reale, italiana.
  • Lei che nell'angoscia visse il tratto più lungo e tormentoso della sua vita umiliata a convalescenza implacabile, lei, Soraya, dico, con la sua morte rompe la routine dei nostri amari pensieri di guerra, per rituffarci in un tempo senz'altro banale ma forse felice.
  1. a b Da Il Negus invita l'Italia d'oggi ad una più attiva presenza in Etiopia, Il Tempo, 21 febbraio 1962
  2. Da La «guerra invisibile» tra generali e politici pericolosa quanto il nemico per il Vietnam, La Stampa, 27 aprile 1965
  3. a b Citato in Per gli americani diventa più dura la guerra nella giungla del Vietnam, La Stampa, 16 novembre 1967
  4. Citato in Malessere dell'Etiopia, La Stampa, 2 gennaio 1970
  5. a b Da Lo scontento che corrode l'Iran, La Stampa, 14 settembre 1978
  6. Da L'addio dello Scià all'Iran - La folla esulta nelle strade, La Stampa, 17 gennaio 1979
  7. a b Da L'Argentina si toglie l'uniforme, La Stampa, 14 dicembre 1983
  8. Da La Somalia vuol farla finita con Barre, La Stampa, 9 luglio 1990
  9. Citato in L'ora del massacro, La Stampa, 2 gennaio 1991
  10. Da Somalia. Non basta la Loren, La Stampa, 1 dicembre 1992
  11. a b Da I conti da pagare, La Stampa, 19 dicembre 1992
  12. a b Citato in È difficile sparare per nutrire, La Stampa, 18 giugno 1993
  13. Da La spada di Bossi sull'Islam, La Stampa, 21 luglio 1993
  14. Da Docile come il mango, La Stampa, 22 maggio 1998
  15. Da Il gattopardo e la tigre, La Stampa, 22 maggio 1998
  16. Da Osama. Lo sceicco della morte, La Stampa, 16 settembre 2001.
  17. a b Da Massud. Il Leone che lottò contro l'integralismo, La Stampa, 17 settembre 2001.
  18. Da «Noi e loro». Frattura islamica, La Stampa, 28 ottobre 2001.
  19. Da La conversione del Colonnello alla rispettabilità, La Stampa, 21 dicembre 2003.
  20. a b Da L'Islam: senza dialogo, terrorismo globale, La Stampa, 10 settembre 2004.

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