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Arnaldo Cipolla

giornalista, esploratore e scrittore italiano

Arnaldo Cipolla (1877 – 1938) giornalista, esploratore, scrittore italiano.

La Stampa, 23 dicembre 1925

  • Bagdad è brutta come costruzioni, ma seducentissima come varietà di abitatori.
  • Re Feisal, come si sa, non è irakeno. È la sua colpa maggiore. Gli arabi della Mesopotamia poco lo amano e, strano fenomeno, accusano lui piuttosto che gli inglesi della crisi profonda che angustia il Paese. Egli ha oggi 33 anni e vive all'europea, senza harem, molto modestamente, malgrado le 120 mila sterline annue della sua lista civile. I suoi nemici gli attribuiscono il semplice proposito di arricchirsi per poi abbandonare il Regno, ingrato anzi che no. I suoi sostenitori invece affermano che ama il Paese dove gli inglesi lo hanno messo a regnare, ed aggiungono che è saggio, equilibrato, filosofo e di tendenze liberali.
  • Feisal, sulla terra dei Califfi fa il Califfo e i filo-arabi inglesi lo incoraggiano.
  • Feisal ha un aspetto estremamente fine, distinto e aristocratico. Somiglia vagamente al conte Sforza, ma più giovane e più esile. Ha le mani lunghe, i piedi piccoli, le giunture sottili, il profilo puro dell'arabo del deserto.
  • Come re orientale, Feisal è veramente una disillusione. Cerco intorno, con gli occhi, qualche cosa che mi faccia apparire il Sovrano di Mesopotamia meno borghese, ma non vi è il menomo segno di lusso, da nessuna parte. Anche i tappeti, sul pavimento, son di poco valore.

Armi, terre, mari nelle lotte per gli imperi

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  • In qualunque luogo della Terra si arrivi con anima e sentimenti italiani, si trova invariabilmente l'ingrata faccia d'Albione in atteggiamento di negare accanitamente a noi, non solo il posto che nel mondo ci compete, ma anche le più modeste affermazioni intese a divulgare i nostri progressi presenti e a difendere la tradizione italiana come espressione inconfondibile del nostro genio. (Introduzione, cap. I, p. 11)
  • [...] gli anglo-sassoni hanno il singolare privilegio (come appare, del resto, anche dalla loro lingua) di mancare di ordine logico, di spirito critico, specialmente autocritico, e di senso del ridicolo, tutte cose che spesso inceppano la libertà di movimento degli altri popoli: triplice mancanza che, col concorso di eccezionali condizioni storiche esterne, è forse il vero segreto della loro altrimenti inesplicabile fortuna imperiale. La mancanza di coerenza logica (e giuridica) induce gli anglo-sassoni, quasi in buona fede, a non rendersi esatto conto della loro incoerenza politica e a stupirsi quando gli altri la rimproverano loro. (Introduzione, cap. I, p. 33)
  • La mancanza di spirito critico e autocritico [dei paesi anglosassoni] li porta a confondere regolarmente il loro comodo con la morale universale, a credersi investiti di non si sa quale missione pedagogica sul resto del mondo, senza accorgersi che il resto del mondo ne ha oramai abbastanza, e infine a portare con fatua disinvoltura il peso di una coscienza talmente carica che qualsiasi altro popolo piegherebbe sotto la soma. E finalmente la mancanza di senso del ridicolo (l'humour è tutt'altra cosa) consente loro – quando fa loro comodo, e sinché fa loro comodo – di prendere sul tragico persino la Società delle Nazioni. (Introduzione, cap. I, p. 33)
  • I lettori, specialmente i giovani, stenteranno a credere che gli autori principali dell'unità araba nella Penisola non furono né il mitico Lawrence, né re Feisal con suo padre Hussein, né il generale Allemby vincitore dei Turchi in Palestina e neppure il generale Maud condottiero della guerra inglese contro gli Osmanlici in Mesopotamia, ma una donna, miss Bell, spentasi qualche anno fa a Bagdad ultra settantenne[1] con il titolo e la carica di «Consigliere Orientale» dell'Impero Britannico. (Parte prima, cap. II, p. 51)
  • L'uomo del destino, giudicato a prima vista, dai suoi sistemi di governo, sembra uno spaventevole retrogrado. Intendo morale, perché qui si vive sotto il dominio assoluto della legge coranica pura, benché tanto nell'Hedgiaz come nel Negd i progressi materiali dell'incivilimento, dalla radio alle armi automatiche, trionfino. Ma Ibn Saud manda i suoi ministri al Cairo e li autorizza a concedere interviste nelle quali essi dimostrano, come due e due fanno quattro, che il ritorno alla legge coranica extrapura, il vahabismo insomma, è l'unico modo per restituire all'Arabia la sua grandezza. (Parte prima, cap. II, p. 52)
  • Mi dicono che esiste a Riadh, la capitale, a seicento chilometri circa da Gedda, nell'Aared, un'istituzione fondata verso la metà del secolo scorso, alla quale non v'è nulla di comparabile nell'Europa, salvo gli antichi tribunali dell'Inquisizione. È il Consiglio dei «meddegiti », degli zelatori. Sono investiti di un'autorità assoluta e fanno la polizia nelle strade e nelle case. Controllano che tutti partecipano alla preghiera pubblica cinque volte al giorno, che nessuno fumi, indossi seta, parli o abbia della luce in casa dopo l'ufficio serale, canti, si diletti di suonare uno strumento musicale, bestemmi, insomma si discosti dai rigidi commenti coranici di Mohamed Abd el Vahab. (Parte prima, cap. IV, pp. 61-62)
  • [...] che cosa ha fatto Ibn Saud per dominare con le città del Negd e dell'Hedgiaz anche il deserto dei beduini? Una cosa semplicissima: ha monopolizzato l'introduzione e l'impiego dei mezzi moderni di dominio a suo esclusivo vantaggio. In primo luogo l'auto, le mitragliatrici, la radio. Scartò l'aeroplano. Gli parve sacrilego dinanzi all'ortodossia del Corano, legge fondamentale ed unica dello Stato. Gli uomini non debbono spostarsi nei cieli sorvolati dagli arcangeli piloti del trasporto aereo della «Kaaba». Con l'auto abolì le distanze fra le città e con la vettura a motore armata sgominò la tracotanza beduina. Che possono i beduini montati sui loro «bevitori di vento» (i cavalli d'origine pura) o sui cammelli, contro le mitragliatrici dei carri armati? Le stazioni radio – superfluo accennarlo – gli permisero di distendere su tutto il Regno una rete di comunicazione insuperabile per controllare nomadi e sedentari. (Parte prima, cap. IV, p. 63)
  • Il volto olivastro e sorridente di Ibn Saud incorniciato dalla barba corta, con il naso pronunciato ma regolare, la bocca mobile, piena, ma non pesante, gli occhi nerissimi, traduce energia e simpatia. Egli è copiosamente profumato ed i gesti delle sue belle mani sono straordinariamente eloquenti. (Parte prima, cap. VI, p. 82)
  • [...] sino ad una ventina d'anni fa l'accesso allo Yemen era precluso agli infedeli ed innumerevoli sono stati gli episodi di fine miseranda di europei, fra cui anche italiani, assassinati nel tentativo di raggiungere dalla costa l'altipiano yemenitico. (Parte prima, cap. VIII, p. 101)
  • Lo Yemen è il granaio di tutti i paesi del Mar Rosso. Esporta dura e granoturco nell'Hedgiaz, nel Sudan, in Eritrea, in Somalia. Distribuisce persino le sue frutta e verdure fresche sulle sterili coste dancale. A Hogela a 120 chilometri da Hodeida la pista camionabile diventa difficile inerpicandosi su montagne possenti. Il paesaggio è fantastico. Sulle vette che sembrano inaccessibili, veri nidi di aquile, si scorgono castelli e fortezze aerei. Ma sotto ai torrioni giganteschi delle rocce, stendonsi piantagioni stupefacenti. Tutta la zona produttiva agricola è ordinariamente e pazientemente terrazzata. Grandi muraglioni sorreggono le strisce sottili di terreno coltivato ed irrigato. Si pensa alle risaie a scala dell'Insulindia e delle Filippine. Ma invece del riso, il caffè, prodotto a migliaia di tonnellate. (Parte prima, cap. VIII, pp. 105-106)
  • Sahana, fondata tradizionalmente da Sem figlio di Noè, la più nobile ed antica città della Penisola [arabica], sorge su di una vastissima piana, conta sessantamila abitanti di cui sedicimila ebrei, è formidabilmente murata e comprende oltre all'antica città araba dalle vie strettissime fra i soliti alti edifici decorati di fregi bianchi (qualcuno li paragona a mastodontici croccanti coperti di zucchero), la città turca ampia, costellata di giardini, e quella ebrea, esteriormente misera. Sahana è animatissima; tutta l'umanità d'Arabia vi si agita: dal sordido beduino al notabile in paludamento elegante e turbante monumentale, dal contadino seminudo e indicibilmente capelluto all'ebreo in tonaca scura e calottina sulla testa rasa, con due unici riccioli cadenti sulle tempie. (Parte prima, cap. VIII, p. 106)
  • Impossibile vedere un volto femminile a Sahana come negli altri centri yemeniti. Arabe ed ebree circolano copertissime. L'Imam considera delitto di nero tradimento il tentativo di un ospite occidentale di avvicinarsi comunque al mistero femminile del paese. (Parte prima, cap. VIII, pp. 106-107)
  • [...] la peggiore offesa per gli Egiziani è di ritenerli non puri caucasici, cioè con qualche cosa di comune con un popolo di negri com'è indubbiamente l'abissino. (Parte seconda, cap. X, pp. 124-125)
  • [...] sotto la guida di Elieser Ben Yenda, il grande riformatore della lingua ebraica, questa è divenuta effettivamente la parlata dei suoi abitanti sionisti. La fisica, la chimica, la meccanica sono insegnate all'Università in ebraico da non confondersi con l'yddisc che è il dialetto degli ebrei che abitavano la Palestina ante sionismo. (Parte seconda, cap. X, p. 128)
  • Le paludi del Sudd furono l'ostacolo che impedì per quasi duemila anni agli uomini di riconoscere il corso del Nilo. I legionari di Nerone lo rimontarono sino dove le paludi incominciano, al Lago No, più a monte non riuscirono a spingersi. Si doveva arrivare alla seconda metà dell'800 perché l'italiano De Bono, seguito da Miani e poi da Romolo Gessi, si aprissero la strada attraverso il dedalo dei canali del Sudd, superandolo e raggiungendo le solide rive della Mongalla. (Parte seconda, cap. XII, pp. 154-155)
  • La vera capitale dell'India d'oggi è Bombay. Un imponente rinnovamento edilizio dovuto al raddoppiamento sia pur fittizio della ricchezza privata causato dalle esportazioni d'oro, l'aumento della popolazione che s'avvicina a grandi passi ai due milioni, la cresciuta importanza della metropoli come centro industriale e commerciale rispetto a Calcutta afflitta da una decadenza che sembra insanabile; la fine del gandhismo, movimento che tendeva a valorizzare le tendenze negative dell'induismo, hanno fatto di Bombay il cuore dell'Impero Indiano. (Parte seconda, cap. XV, pp. 192-193)
  • È qui [a Bombay] più che altrove che si percepisce l'enorme progresso compiuto dagli Indiani di fronte agli Inglesi nella direzione effettiva del Paese. L'idea dell'India indipendente non è più una chimera come ai tempi di Gandhi, perché l'India possiede oramai una numerosissima classe sociale dirigente unicamente indiana.(Parte seconda, cap. XV, p. 193)
  • Se gli abitatori delle Isole di Paradiso nel Pacifico [...] avessero una mitologia paragonabile alla greca, Bali sarebbe la patria d'elezione della loro Venere. Essa non potrebbe generarsi che sulle sue rive. Bali è la più bella isola dell'Universo, il suo popolo il più estetico, le sue donne le più avvincenti. (Parte terza, cap. XXIV, p. 288)
  • La grande maggioranza dei visitatori è è sempre provenuta dal Nord America, comunque la rinomanza di Bali nel mondo è tale da far pensare che essa sia stata la meta di schiere di caucasici in gita di piacere molto più numerose.
    La ragione, la vera? Bellezza commovente imponenza e varietà del paesaggio? I colori? I costumi, le danze che a prima vista sembrano l'occupazione essenziale del popolo? L'eccezionalità di un'isola bramanica nel gran mondo insulindese islamita per la massima parte o idolatra? Le manifestazioni artistiche indigene? Niente di tutto questo. Il motivo della popolarità di Bali è costituito dall'abitudine delle sue donne di presentarsi sotto la luce del sole con il busto perfettamente ignudo ciò che non significa affatto che le relazioni fra i due sessi siano più rilasciate che altrove. Questo particolare ha fatto una grande impressione sugli americani, gente piuttosto puritana, almeno a parole. E siccome sino a poco tempo fa le impressioni americane facevano testo dappertutto, specie se approssimative e banali, il mondo conobbe Bali come il paradiso della femminilità seducente e senza veli. (Parte terza, cap. XXIV, pp. 289-290)
  • I Balinesi non sono affatto negri, ma neppure bianchi. Sono Malesi, cioè una specie umana che in fatto di estetica, struttura del corpo e fattezze del viso è molto vicina agli Indiani meridionali. Indiani ben nutriti, s'intende. Il colore della pelle è più attraente nei Balinesi, una tinta calda, dorata, un vero color di miele che s'intona alla perfezione con l'ambiente, mentre i lineamenti sono meno delicati. In quanto alle donne di Bali alle quali incombono tutti i lavori, compresi gli atrocemente pesanti ma escluso quello della risaia, l'assenza di vesti dalla cintola in su è un privilegio delle giovani, delle graziose, di quelle che abitano la campagna e delle oneste. Le etere, per esempio, si coprono il seno e fanno la stessa cosa le altre donne che per un motivo o per l'altro non hanno molto da guadagnare da cotesta esibizione. (Parte terza, cap. XXIV, p. 290)

Asia centrale sovietica contro India

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  • Gli Europei che vivono in Russia alle dipendenze delle svariatissime organizzazioni industriali sono invariabilmente ostili al Regime e mostrano poca fiducia in un avvenire normale della Confederazione. Vi confermano che dappertutto si lavora e si produce, ma aggiungono che non sono ancora riusciti a capire a cosa serva questa produzione che si mostra incapace di modificare menomamente il bassissimo «standard» della vita moscovita. (cap. II, p. 20.)
  • [...] anche a proposito delle abitazioni che costituiscono il problema più desolante per l'osservatore straniero, il quale non sa spiegarsi la rassegnazione dei Russi delle grandi città ad adattarvisi, il sovietico convinto ha l'aria di suggerirvi che l'inconveniente è benefico al Regime e quindi mantenuto ad arte, poiché disaffeziona talmente il popolo dalla casa particolare da fargliela odiare a vantaggio del «club», del teatro, del ristorante collettivo, in una parola, di tutto il sistema che bene o male sostituisce il fascino della famiglia, base delle società antisovietiche. La peggior nemica del comunismo è la famiglia, e quindi guerra alla famiglia e guerra alla casa che sola può consentirne la funzione e la conservazione anche nei rivolgimenti ultra totalitari come la Rivoluzione Rossa. (cap. II, p. 21.)
  • La Russia tende a diventare una sterminata caserma o meglio un mostruoso organismo militare e tale apparirà senza dubbio fra qualche anno. Ottenere un esercito strapotente di forza numerica mai vista sulla terra, trasformare tutto il popolo atto alle armi in esercito, ecco il vero, il supremo scopo del sovietismo odierno: tutto il resto è secondario. (cap. II, p. 21.)
  • La visione dell'Aral è indimenticabile. Mi figuravo una specie di palude indeterminata al limite della steppa e invece a Porto d'Aral (Aral Mori) dove il treno si è fermato lungamente, abbiamo sotto gli occhi una distesa intensamente azzurra solcata da vele numerose, un vero mare, insomma, che manda giornalmente alla ferrovia tonnellate di pesca, le quali vengono trasportate a Tashkend (la capitale del Turchestan conta più di mezzo milione di abitanti). (cap. V, p. 79.)
  • [...] [il] pellegrino cinese Hiuan-Tsang, il Marco Polo «a rovescio» della Cina, cioè il viaggiatore che compì verso Occidente la stessa fatica del grande camminatore e descrittore italiano verso Oriente. Hiuan è più antico di Marco Polo di un mezzo millennio circa, ma è di una tale esattezza nelle relazioni del suo viaggio attraverso l'Afganistan, che tanto Foucher[2], come gli archeologi inglesi, seguendo le sue indicazioni topografiche, hanno ritrovato tutto quello che i suoi occhi avevano veduto e la sua mano descritto in caratteri mandarini. (cap. XIII, p. 207)
  • Sorvolo sullo stato d'animo con il quale ci si avvicina a questa leggendaria barriera montana, figlia diretta dell'Ymalaia, sapendo che si supererà quasi con la stessa facilità con cui si valicano le Alpi. Senonché qui bisogna raddoppiare le dimensioni. I colli più bassi dell'Indo Kusc sorpassano i quattromila metri, ad eccezione di Shibar, di 3200 metri, scavalcato dall'unica rotabile. Sembra un miracolo riuscire ad issarsi con l'automobile ordinario[3] sulla catena principale, dato che le strade sui contrafforti che la precedono sono assolutamente spaventose: invece, quando si giunge nel cuore del massiccio, tutto cambia. Si corre sul fondo di altissimi cunicoli, fra pareti di roccia che consentono appena di vedere il cielo, ma la strada ha un fondo eccellente. (cap. XV, p. 225)
  • Il nome di Indo Kusc comparve al principio del 1300, nelle storie arabe e significa «tomba degli indiani», forse a causa del gran numero di schiavi indiani che perivano sulle sue nevi. (cap. XV, p. 226)
  • Sinora, quando ho parlato incidentalmente della capitale afgana ho usato degli aggettivi non molto lusinghieri; ma oggi che ne sono ospite, non so nascondere la soddisfazione di annunziare che esiste ancora al mondo una città veramente straordinaria, anzi stupefacente se considerata dal punto di vista internazionale, drammaticissima, in contrasto con tutti i gusti universali, con tutte le concezioni di esistenza che imperano da Roma a Pechino, da Novo Sibirsk, a Melbourne, da Batavia a New York, da Calcutta a Lima, infine su l'intera terra abitata.
    Infatti Cabul è «unica». Non mi vengano a dire gli Europei e gli Americani che ne hanno scritto o detto prima di me, che essa non presenta nulla di speciale, priva com'è di pittoresco, in un paesaggio di grandi montagne lunari e con un aspetto sommario che l'avvicina a qualche centro minerario messicano, benché di metalli nella sua zona non ne esistano. Cabul del 1934 è tutt'altra da quella che apparve ai tempi della monarchia decaduta, quando Amanullah il riformatore sì compiaceva di mostrare agli stranieri che il suo paese aveva le qualità per non essere da meno della Persia o della Turchia, i paesi che più si avvicinano all'Afganistan come costumanze e pensiero. Da quei giorni ad oggi nessuno è venuto a Cabul a tentare di rendere edotto l'Occidente e l'Asia medesima della indicibile trasformazione di essa. (cap. XVI, pp. 255-256.)
  • La storia degli assassini e delle grassazioni del Kyber è un «record» scritto col sangue, lo sapete già. Tutte le misure degli Inglesi non riescono e non riusciranno forse mai ad estirpare il brigantaggio dal passo munitissimo per due terzi della sua lunghezza, saturo di truppe, percorso da una ferrovia e battuto non solo dalle migrazioni periodiche dei nomadi, ma da un intenso movimento quotidiano. (cap. XVIII, p. 308)
  • Moltissimi soldati, molti ufficiali inglesi al Kyber, ma nessuna donna europea. Basta aver veduto l'orrore fisico del Kyber per comprendere perché gli ufficiali inglesi di guarnigione ad Ali Majid, a Lundi Kotal, a Yamrud, a Fort Maude preferiscano tenere le loro mogli a Peshawar. Nessuna ha mai resistito a rimanere al Kyber più di tre giorni. (cap. XVIII, p. 308)
  • [Il passo Kyber] È peggiore delle rive del Mar Morto, più desolato di una forra di montagne dancale, più sterile dell'interno di un cratere di vulcano, infine il luogo maggiormente ripulsivo del Pianeta, l'inferno. (cap. XVIII, p. 308)
  • Rivedere una città normale, civile, sia pure singolarissima come questa Peshawar, che a poca distanza dal grande Indo assolve nei riguardi dell'Asia Centrate la stessa funzione di Marrachesh o di Cano rispetto al Sahara, cioè di metropoli dei nomadi, di «città luce» per una delle porzioni d'umanità più arretrate; rivederla — aggiungo — dopo un certo tempo trascorso nel Turchestan e in Afganistan è una soddisfazione che vi scende molto addentro nell'animo. (cap. XVIII, p. 309)

Nell'impero di Menelik

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  • La legge abissina vieta in modo perentorio e minaccia le pene più gravi a coloro che si permettessero di sospettare pubblicamente lo stato meno che ottimo della salute dell'Imperatore. In Abissinia il Negus che riassume in sè tutti i poteri non è concepibile agli occhi della folla che come una divinità sottratta alle cause comuni che possono indebolire gli organismi dei semplici mortali. (p. 15)
  • La potenza di Taitù dipendeva essenzialmente dalla vita di Menelik, la sua caduta poteva essere una delle prove più sicure della morte dell'Imperatore. (p. 15)
  • Menelik checché se ne dica lascerà l'Abissinia ben poco differente dal punto di vista dell'unità nazionale da quello che era agli inizi del suo regno. L'amalgama dei cento popoli compresi entro i confini dell'impero è apparente, incerta, come lo era venticinque anni or sono. Il prestigio personale dell'Imperatore ha sopito le cause di conflagrazione interna, ma non le ha certo neutralizzate, e dato che nessuna nazione europea ha per ora nelle sue vedute, l'idea di attentare alla integrità dell'impero, rimane senz'altro scartata la possibilità di una provocazione che riesca a suscitare un movimento simile a quello verificatosi nel novantasei contro di noi. Al giorno d'oggi scioani, galla, tigrini ed amhara si odiano non meno profondamente di come si odiavano per il passato. (pp. 19-20)
  • Menelik aveva compreso che la condizione essenziale per la salvezza del suo stato stava nella assimilazione delle forme civili e fece quanto di meglio poté per imporle ai suoi popoli. (p. 26)
  • Al colle dello Scudo d'oro ci si affaccia sull'immensa, ubertosa e ridente conca di Adua. Non vi è nulla che possa riprodurre il contrasto fra quell'impareggiabile bellezza di paesaggio e il ricordo tragico della battaglia che le impervie altissime ambe limitanti ad oriente l'orizzonte sembrano materializzare per l'eternità. (p. 32)
  • L'interno di Adua, capitale del Tigrai, è quello che in brutto, costituisce l'interno di una cittaduzza araba; straducole dove si stenta a passare a cavallo, qualche stravagante costruzione in pietra che fa l'ufficio di chiesa, dinanzi alla quale i componenti della carovana si arrestano per genuflettersi e baciare la rozza porta di canne; una distesa disordinata di capanne, un gran numero di recinti conventuali, una spianata sconnessa del mercato, una quantità spaventosa di cani e tre europei residenti. E basta. Ma all'infuori dei cani, autori gratuiti di una costante e infernale sinfonia notturna, il soggiorno vi è dolcissimo per la mitezza del clima e la bellezza della campagna circostante. (pp. 33-34)
  • Chi ha vissuto in Abissinia, chi ha conosciuto quel popolo, chi ha visto ed ha percorso il campo di Adua, sa benissimo che noi eravamo sufficienti per vincere. Immenso, immenso quel campo, tale da accogliere non quattro brigate combattenti, ma quattro corpi di armata addirittura. E quella sproporzione tra l'enormità della distesa delle posizioni e l'esiguità del nostro corpo di operazioni è stata la ragione prima dell'insuccesso. Lasciamo le altre. Che vale oramai parlare dell'insipienza dei capi, dell'ingiustizia della fatalità? L'Italia conosce a menadito quella storia. Oramai a che servirebbe, sopratutto quando si pensa che anche la sconfitta non ebbe mai un valore capitale e che nessuno dopo quella giornata ci sbarrava il cammino, ma che noi avevamo innanzi un esercito in piena rotta, decimato oltre che dagli effetti delle nostre armi, da una folla di altre cause di disgregazione? (p. 54)
  • Non c'è un solo villaggio nell'Abissinia settentrionale e centrale che non ricordi vittime perdute ad Adua. È per questo che il sentimento che ha lasciato la sconfitta nello spirito abissino non è affatto di disprezzo verso di noi. Gli abissini hanno compreso di averci vinto perché ci hanno sorpreso in piena manovra. (p. 57)
  • Constatavo da per tutto che la venerazione per Menelik era il solo sentimento generale che non si discuteva. Il prestigio del suo nome era immenso, esso formava la sola molla che regolasse quel disordinato organismo, ma lo era in quanto Menelik personificava il vittorioso che aveva compiuto la più grande impresa guerresca contemporanea. Quando la mente dell'imperatore si modernizzò sino a comprendere la convenienza di sfruttare i benefici della vittoria per fare dell'Abissinia uno stato relativamente ordinato, dove l'avvento al potere supremo più non rappresentasse il risultato di convulsioni interne, il suo popolo non lo comprese e non lo seguì, perché non comprende e non comprenderà mai come si possa aspirare al trono, vale a dire ad essere universalmente ubbidito e temuto, senza avere conquistato quella suprema potenza colla spada in pugno. Esso si spiega che si possa ubbidire all'imperatore, ma non alla sua volontà postuma. Ritenere ciò equivale attribuire all'Abissinia una mentalità ed un sentimento che essa ancora non possiede. (p. 77)
  • L'ideale diremo così che sta in cima dei pensieri di un azebù galla consiste nell'assalire e nell'uccidere i componenti di qualche disgraziata carovana poco difesa, più che per depredarla, per evitare gli uomini.
    L'azebù galla che non è riuscito ancora a compiere una di tali imprese, è considerato come imbelle. Nessuna donna consentirebbe ad unirsi a lui, e non gli è permesso di portare la capellatura a treccie, segno che distingue simile specie di eroi. (p. 77)
  • [Sugli azebù galla] Nessun capo abissino e neppure quelli che potevano disporre di veri eserciti ai loro comandi osò mai avventurarsi in mezzo delle sterminate pianure dove essi vivono numerosissimi. Nessun abissino osa frequentare i loro mercati. Sono idolatri, non coltivano la terra, si cibano soltanto di latte e passano per i cavalieri più abili dell'impero. (p. 78)
  • Gli azebù galla sono considerati dalle altre popolazioni come una razza di schiavi. È in mezzo ad essi che si compiono ancora oggi le retate più numerose di quegli infelici. (p. 78)
  • La cultura in Abissinia è assolutamente primitiva basandosi soltanto sul Vangelo dopo del quale lo spirito etiopico mostra di ignorare o per lo meno di trascurare qualsiasi altra manifestazione che possa essere sortita dal pensiero umano. (p. 80)
  • [Su Mikael di Wollo] Certo il suo passato è degno dell'alta aspirazione poiché Micael fu or sono vent'anni il rivale più forte di Menelik e sebbene questi riuscisse quasi a batterlo, ne lasciò intatta la potenza e non trascurò mai di offrirgli infinite e lusinghiere prove di amicizia sino a dargli la figlia in isposa. (p. 95)
  • La posizione dello schiavo in Abissinia non è certo la medesima che esisteva nell'Africa Centrale prima della occupazione europea. Gli schiavi che vivono in Etiopia non sono nè percossi nè soggetti a lavori inumani, ed il loro padrone deve in certo qual modo rispondere dinanzi al Feta negast (la legge abissina) della vita del suo schiavo. Ma questi derelitti che disimpegnano tutti i lavori più gravosi, non hanno né famiglia, né beni, né diritti e la questione della schiavitù in Abissinia, che le potenze civili si sono tacitamente impegnate di non sollevare, costituisce un obbrobrio che non accenna affatto a diminuire. (pp. 97-98)
  • Tutti sanno che Menelik ha aderito alla conferenza di Bruxelles per l'abolizione della schiavitù e chi è stato in Abissinia sa pure come sia assolutamente proibito e mostrare di sapere che la schiavitù è in fiore. (p. 98)
  • Ras Micael è un bell'uomo sulla cinquantina, aitante nella persona, dal profilo regolare, dall'occhio vivace e dai lineamenti aristocratici. Alla connessura labbiale destra ha una cicatrice prodottagli da ferita ricevuta combattendo. Ha facile, simpatico il sorriso, la parola ornata, seducente e cortese, l'espressione assai dolce. Il Ras dei Wollo Galla si è convertito dall'islamismo al cristianesimo da circa vent'anni ed è curioso constatare come egli sia un praticante rigoroso e sincero almeno apparentemente. In grazia della sua natura mussulmana-abissina egli possiede spiccatissima la visione dell'importanza del commercio: favorisce i mercati, per modo che nella sua regione si contano i più importanti centri commerciali di Abissinia, sorveglia le vie di comunicazione, medita l'opportunità di costruire qualche ponte ed è suo merito se Dessiè va assumendo una importanza così grande da rivaleggiare oramai col famoso mercato di Borumieda reputato il più frequentato dell'impero. (p. 99)
  • Yasu, il figlio di Micael, l'erede del trono, mi ha lasciato una indimenticabile impressione di dolcezza, di bontà e di mitezza. (p. 109)
  • Sembra felicissimo di potere dire quello che pensa. Ha una voce squillante ed armoniosa, delle mosse rapide, nervose, degli occhi grandi, straordinariamente grandi ed espressivi che sorridono sempre. (p. 110)
  • Mi ero immaginato Yasu di una ingenuità assai diversa di come le sue prime parole me lo facevano apparire. In tutto il mondo etiopico non esiste una figura che contrasti maggiormente con l'ambiente. Simpatia, squisitezza di sentimenti e di modi, leggiadria dell'aspetto esteriore, tutte le qualità insomma che formano la seduzione dell'adolescenza, Yasu le possiede e le ispira. (p. 110)
  • [Su Gugsà Oliè] È magro, ha rari capelli grigi e pochi peli sul mento. Il colorito della pelle è molto chiaro. Parla piano lentamente socchiudendo gli occhi e come cercando le frasi. Io non ho molta voglia di fargli dei complimenti. (p. 126)
  • Gli abissini non posseggono nulla di quello che forma la joie de vivre. Non sembrano mai lieti, sono dilaniati e decimati da una quantità di malattie che i selvaggi ignorano, hanno soppresso l'amore sopprimendo nella donna la sorgente della sensualità, hanno soppresso la danza, hanno delle chiese misteriose ed impenetrabili al volgo. [...] Io credo fermamente che questa condizione di cose, questo immenso velo di tristezza che si estende in tutta l'Etiopia e ne fa la vita priva di ogni bellezza, sia opera di quella specie di cristianesimo rozzo, crudele, impenetrabile che ha preso a prestito una folla di credenze dalle religioni feroci degli avi antichissimi e che è rimasto giudaico nel fondo, con tutta l'ineffabile melanconia che ha caratterizzato le forme e la vita del popolo ebreo. Del resto, quella povera gente è la più pacifica del mondo. Fra di essa non deve mai succedere un delitto, sembra un paese rassegnato sotto il peso di un dolore che tolga alle anime degli uomini ogni motivo per amare la vita. (p. 152-153)
  • Gli abissini hanno ricevuto dall'Europa il dono delle sue armi perfezionate ma non quello di sapervi adattare il loro costume guerriero. (p. 174)
  • Ad un banchetto dove Micael volle fossi convitato anch'io avevo Alula vicino a me accoccolato per terra che masticava con appetito la carne cruda del convito.
    – Come si battono Alula gli italiani, chiesi?
    – Come ambisa (leoni) mi rispose. (p. 186)
  • Dal punto di vista abissino Ras Oliè non era un cattivo amministratore, proteggeva anzi i contadini (gli abissini benintesi non i suoi sudditi di altre razze) ed aveva come pregio una certa rude sincerità che lo rendeva abbastanza amato. Era anche favorito dal fatto di comandare il più bel paese di Abissinia ed il più fertile. (p. 192)
  • Oliè dunque non era un cattivo capo, ma aveva delle crisi veramente pazzesche per cui più di una volta i sudditi medesimi furono costretti ad imbavagliarlo ed a legarlo. (p. 192)
  • I giudizi abissini sono condotti con sottigliezza ed acume. L'amministrazione della giustizia forma del resto l'occupazione principalissima di tutti coloro che detengono un comando od una carica. Dopo la passione per le armi, credo che quella per i tribunali sia nell'anima abissina la più forte. (p. 202)
  • La mentalità abissina non fa distinzione fra il merito di sopprimere un nemico della patria e quello di abbattere un elefante. È gloria del medesimo genere, onorata dagli stessi segni esteriori in vita ed in morte, con l'anellino d'oro appeso all'orecchio a mò di pendente e con il fascio delle bacchette sulla fossa. (p. 210)
  • Gli abissini si riservano un solo mestiere per il quale dimostrano ottime attitudini ed una passione straordinaria: quello del commerciante girovago, del nagadi; il vero, l'instancabile viaggiatore del suo paese, occupazione che risponde del resto alla passione per la vita nomade diffusissima in Etiopia. (p. 214)
  • Delle raffinatezze europee Taitù, ferocemente xenofoba, non aveva accolto che l'arte che le consentiva di apparire meno vecchia di quanto i suoi settanta anni suonati le assegnavano il diritto di sembrare. Aveva inesorabilmente respinto dalla sua corte gli ideatori dei grandi progetti destinati a porre l'Abissinia sulla via del progresso, ma accoglieva con i massimi onori i dentisti, i masseurs, e in generale tutta la schiera dei ciarlatani piovuti ad Addis Abeba per sfruttare l'ingenuità e la buona fede sua in materia di farmachi destinati a perpetuarne la giovinezza. (p. 228)
  • La conquista dei galla, iniziata da Menelik nel 1870 ebbe fine nel 1897 con l'assoggettamento dei borana. I galla difesero con la forza della disperazione le loro terre: solo le discordie fra tribù e tribù e i fucili dei quali l'Europa aveva invaso l'Abissinia finirono per avere ragione sul loro valore e sul loro numero. Decimati dalla strage e dalle carestie susseguenti alle guerre ed alle razzie che popolarono l'Abissinia di schiavi, i galla si sottomisero agli scioani, ma l'odio di razza cova in loro tenace e paziente fomentato dalle tristi condizioni provocate dal governo dispotico e crudele dei luogotenenti abissini. (p. 239)
  • I galla non hanno una religione ben determinata ma tengono in onore più di qualunque altro popolo d'Abissinia e forse di Africa la carità e la tolleranza. Le loro credenze sono un miscuglio di giudaismo, di islamismo e di paganesimo. Adorano Oul dio del cielo assistito da quarantaquattro geni secondari e quelli fra i galla che sono cristiani continuano ad invocare cotesti geni fra le preghiere di un cristianesimo denaturato. L'islamismo dei galla, dov'è diffuso, ha essenzialmente carattere di opposizione politica agli abissini copti. (p. 250)
  • Il Tigrè vive e respira unicamente sulla nostra Eritrea, sul porto di Massaua. (p. 272)
  • [Su Taitù Batùl] Donna non commune che era riuscita attraverso una vita fortunosissima a soggiogare i sensi dell'imperatore e a farlo divenire sino soppressore di vite innocenti, di quelle almeno che avrebbero potuto ostacolargli il possesso della donna desiderata per la sua bellezza fisica e veramente desiderata per la bianchezza della sua epidermide. (p. 277)

Sino al limite segreto del mondo

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  • Così dal cuore dell'Asia arriva in Europa il sangue della guerra, l'essenza dionisiaca della velocità, il petrolio di Kirkuk. Arrivare e combattere per il petrolio. Strike oil! Grido dell'americano del 1860, grido attuale di tutti gli uomini, grido delle brigate inglesi inviate in Palestina a salvaguardare il 30 per cento d'interesse netto che il petrolio largisce agli azionisti della City.
  • Noi vediamo e vedremo sempre l'Irak sotto l'aspetto petrolifero . Il primo accordo anglo-francese per i petroli dell'Irak data dalla grande guerra (1916).. ..L'accordo di San Remo finì per attribuire ai francesi la parte germanica sequestrata all'Armistizio, cioè il quarto della produzione dell'"Irak Petroleum", mentre altri due quarti erano assegnati all'Inghilterra e l'ultimo quarto agli Stati Uniti d'America.
  • Quando si parla della preda coloniale germanica della grande guerra che Inghilterra e Francia hanno carpito in Africa ed altrove non facendone menomamente partecipe l'Italia, loro alleata, anzi la vera salvatrice delle fortune dell'Intesa, si dimentica il petrolio dell'Irak il tesoro inesauribile dal quale l'Italia venne inesorabilmente esclusa. Egoismo più odioso di questo non si poteva attuare. Esso giustifica qualunque rivendicazione italiana nell'avvenire.
  1. In realtà, non raggiunse i cinquantotto anni.
  2. Alfred Foucher (1865-1952), archeologo, filologo e storico dell'arte francese.
  3. Il sostantivo, all'epoca, era declinato anche al maschile.

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