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Discorso interno

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Il discorso interno o linguaggio interiore è il linguaggio mentale silenzioso e personale[1] che usiamo per dialogare con noi stessi[2]. Comincia a svilupparsi dopo i 7/8 anni di età. Quando viene monopolizzato da un argomento che assume carattere ossessivo si parla di ruminazione mentale.

Essendo un linguaggio soggettivo "per sé stessi", ipotizzando una sua registrazione risulterebbe incomprensibile a chiunque, in quanto formato da estreme abbreviazioni, sintatticamente formato da soli predicati in quanto il soggetto è dato per scontato, ricco di cambi di paradigma "ipertestuali" con immagini o fantasie esclusive[3]. Per queste caratteristiche il discorso interno risulta monologo, sotto questo aspetto più simile al linguaggio scritto piuttosto che al linguaggio orale che è invece essenzialmente dialogico.

Secondo George Armitage Miller il linguaggio interno viene inteso come "linguaggio meno suono", ovvero muto. John Watson lo ritenne come fosse il linguaggio esteriore non portato a compimento. Vladimir Michajlovič Bechterev un semplice riflesso verbale inibito nella sua parte motoria. Ivan Michajlovič Sečenov un riflesso interrotto a due terzi del suo tragitto. M.Shilling propose per dirimere le ambiguità di utilizzare per queste interpretazioni la definizione "verbalizzazione interiore", per quella funzione parziale del "linguaggio interiore". Secondo Kurt Goldstein lo definisce poi genericamente come tutto quello che precede un atto motorio verbale, che quindi includerebbe anche il pensiero[3].

Gli studi di Vygotskij sul linguaggio interno

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«[…] il discorso interno deve essere considerato non come un linguaggio meno il suono, ma come una funzione verbale del tutto particolare e originale per la sua struttura e le sue modalità di funzionamento, che proprio perché organizzata in modo del tutto diverso da quello del discorso esterno si trova con quest'ultimo in un'unità dinamica indissolubile nei passaggi da un piano all'altro.»

Lev Semënovič Vygotskij è uno dei primi studiosi ad analizzare gli aspetti psicologici della formazione del discorso interno, studiando in particolar modo la sua genesi tramite il comportamento del bambino[5].

Un altro aspetto indagato anche da Jean Piaget è il "linguaggio egocentrico" tipicamente espresso nel monologo collettivo dei bambini. Si tratta di una fase evolutiva intermedia tra il discorso come mezzo di comunicazione con altri e il discorso "per se stessi" interno. Secondo Vygotskij invece di scomparire con l'età, il linguaggio egocentrico si trasforma in linguaggio interiore.

«[…] nel monologo collettivo, ogni bambino fa un monologo, ma mantiene la finzione della comunicazione e della presenza di potenziali interlocutori. La fase successiva, quella immediatamente precedente al linguaggio interno, consiste nel discorso che il bambino pronuncia ad alta voce prima di addormentarsi e che richiede l'assenza di ascoltatori.»

Caratteristiche del discorso interno

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Il discorso interno è sostanzialmente diverso da quello esterno.

«[…] il discorso per sé non può affatto trovare la sua espressione nella struttura del discorso esterno, completamente diverso per la sua natura; la forma di discorso, che è del tutto particolare per la sua natura […] deve avere necessariamente una sua forma d'espressione speciale, poiché il suo aspetto fasico cessa di coincidere con l'aspetto fasico del discorso esterno.»

Innanzitutto si tratta di un discorso in cui i due interlocutori coincidono e per questo motivo:

  • Ci sono poche possibilità di equivoco comunicativo;
  • Non si subisce l'influenza (negativa o positiva che sia) di un ascoltatore altro da sé stessi;
  • Non è necessario esplicitare i concetti.

Nel discorso interno si omettono soggetti e complementi oggetti, perché non indispensabili alla comprensione, dato che fanno parte della memoria individuale.

«La legge del discorso interno impone di omettere i soggetti, come la legge della parola scritta impone di mantenere sia soggetti che predicati.»

In questo senso il discorso interno è caratterizzato da una forte predicatività e da collegamenti multidirezionali.

Inoltre possono essere omessi gli aggettivi, perché vengono sostituiti da immagini visive. Queste ultime, insieme alle sensazioni, sono fondamentali nel discorso interno. L'io invece di formulare intere frasi, richiama immagini immagazzinate nella memoria.

«La parola può essere sostituita dalla sua rappresentazione o dalla sua immagine mnestica, come qualsiasi altro oggetto.»

La sintassi del discorso interno, diversamente da quella del discorso esterno, non è lineare.

«La prima e la più importante caratteristica del discorso interno è la sua particolarissima sintassi. […] questa particolarità si manifesta nella frammentarietà apparente, nella discontinuità, nell’abbreviazione del discorso interno rispetto a quello esterno. [C’è] una tendenza assolutamente originale all’abbreviazione della frase e della proposizione, nel senso che conserva il predicato e le parti della proposizione che gli sono legate a spese dell’omissione del soggetto e delle parole che gli sono legate. Questa tendenza alla predicatività della sintassi del discorso interno si manifesta […] con una regolarità perfetta […] cosicché alla fine, ricorrendo al metodo della interpolazione, dovremmo supporre che la predicatività pura e assoluta è la forma sintattica fondamentale del discorso interno.»

Traduzione interlinguistica

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Nella scienza della traduzione il concetto di discorso interno è fondamentale e rivoluziona il modo più tradizionale di considerare il processo traduttivo. La lettura e l'ascolto sono processi che trasformano il linguaggio verbale in discorso interno. La lettura, per esempio, ha come prototesto un testo scritto e come metatesto una serie di ipotesi sullo scopo dell'autore nello scrivere il testo. Il metatesto è quindi verbale e non mentale. Dato che il codice interno non è verbale, la lettura è una traduzione intersemiotica.

«Qui abbiamo un processo […] dall’esterno all’interno, un processo di volatilizzazione del discorso [reč’] nel pensiero [mysl’].»

Anche la scrittura è una traduzione intersemiotica, il cui prototesto è il materiale mentale e il cui metatesto è materiale verbale.

Considerando lettura e scrittura in quest'ottica, la traduzione interlinguistica si configura come un processo traduttivo intersemiotico doppio.

Linguaggi discreti e continui

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Quelli discreti sono linguaggi nei quali si possono distinguere i segni di cui sono composti. Nei linguaggi non discreti o continui il testo non è divisibile in segni.

«L’impossibilità di una traduzione precisa dei testi da linguaggi discreti a linguaggi non discreti/continui e viceversa discende dalla loro struttura diversa per principio: nei sistemi linguistici discreti il testo è secondario in relazione al segno, ossia si divide distintamente in segni. Distinguere il segno come unità elementare iniziale non costituisce difficoltà. Nei linguaggi continui e primario il testo, che non si divide in segni, ma è esso stesso segno, o isomorfo a un segno.»

Il discorso interno è continuo, perché pensiamo in termini di senso e non di parole, mentre il linguaggio verbale è discreto e limitato (per esempio il numero di parole non è infinito). Il discorso interno è più ricco del discorso esterno, quindi nella traduzione dal primo al secondo avviene una sintesi, che comporta un residuo traduttivo.

  • Jurij Michajlovič Lotman. (1990). "2. Autocommunication: T and 'Other' as addressees". Universe of the mind a semiotic theory of culture. Tauris
  • B. Osimo, Propedeutica della traduzione. Corso introduttivo con tabelle sinottiche, Hoepli, 2010, ISBN 978-88-203-4486-3.
  • Lev Semënovič Vygotskij, Pensiero e linguaggio, traduzione di L. Mecacci, Bari, Laterza, 1990.

Voci correlate

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